di Salvo La Porta

Il Commissario volle credere alle giustificazioni di don Gaetano e lo lasciò andare, pregandolo che per l’avvenire evitasse di andare a prendere le misure dei piedi sino a domicilio; specie se il domicilio del cliente o della cliente si trovava tanto lontano dal centro abitato e fosse chiacchierato.

Che se li facesse venire in negozio i clienti…avrebbe risparmiato la fatica di una camminata così lunga e faticosa e non sarebbe incorso in una situazione deprecabile ed equivoca come quella.

Pilaro, invece, fece come se fosse entrato per caso, incuriosito da tutta quella forza pubblica, per vedere se ci fosse stato bisogno del suo aiuto.

Non si sanno le cose della vita, “ che cosa sarà mai successo, mi sono chiesto e, da cittadino probo e rispettoso delle leggi quale mi sento di essere, non ho esitato ad entrare, incurante dei probabili pericoli e della non proprio buona reputazione della casa”.

“ Certu, certu, Prufissuri; ma, per favore, me la vuole togliere una curiosità…lei è medico?” fece il Commissario con aria sorniona.

“ No. Perché dovrei essere medico?” ribatté il primo. “ Così…dicevo così; perché non riesco a capire che

tipo d’aiuto avrebbe potuto mai dare e a che genere di pericolo si riferisce. Comunque, grazie. Può andare anche lei”, tagliò corto il poliziotto.

Erano rimasti quegli altri gentiluomini, che comodamente seduti sulle logore poltrone della squallida camera si sforzavano di dare l’impressione di discutere sulla kantiana

“ Critica della Ragion Pratica”.

Il Commissario, nonostante li conoscesse bene come abituali frequentatori della casa, chiese i documenti e, dopo avere proceduto ad una rapida identificazione, fece andare anche loro. Erano rimasti, oltre i poliziotti e i carabinieri, soltanto Angelina ( che nel frattempo si era frettolosamente vestita, cercando di ricomporsi alla meno peggio) e…lo zio Angelo in causi di tila, in mutande e con un calzino ad un piede ed un altro piede nudo.

Ora, mentre Angelina sapeva già che se la sarebbe potuta cavare con una bella ramanzina, lo zio Angelo non sapeva neppure immaginare di quali morti avìa moriri, quale sarebbe stato il suo destino.

Destino veramente strano e beffardo, perché il poveretto, senza mangiare e senza viviri, si ritrovò ad essere suo malgrado il capro espiatorio di quella storiaccia al limite del boccaccesco.

Le apparenze, seppure ingannevoli, parlavano chiaro.

Quell’uomo in mutande si trovava lì, in quel luogo ed in quell’ora e in compagnia di quella donna, violando palesemente le norme del buon costume; per cui, fu invitato (dopo mille severi, moraleggianti rimproveri, che lui ascoltava a testa bassa) a rivestirsi ed a seguire un carabiniere e un poliziotto, che tosto lo rinchiusero al carcere di Santo Rocco con l’accusa di violazione della legge Merlin.

Ad attenderlo nell’angusta cella senza servizi igienici, trovò Peppi Piduni, specializzato nella cattura di galline con la fava; e proprio intento a bucare le fave con un piccolo punteruolo era intento, quando lo zio Angelo fece il suo timido e doloroso ingresso.

L’indomani, Peppi sarebbe uscito ed aveva già adocchiato alcune grasse gallinelle, che razzolavano sul piano disselciato, su cui dava la finestrella con le inferriate.

Il procedimento era semplicissimo e Piduni era un vero e proprio specialista.

Faceva passare un filo sottilissimo di spago dentro il buchino, che aveva praticato dentro una fava, che posizionava ad esca per bipede e…rimaneva ad aspettare, sino a che la gallina ingorda e con risaputo poco cervello non ingoiava avidamente il legume.

Era il momento opportuno, perché Peppi tirasse la cordicina, trascinandosi la povera bestia, il cui destino era definitivamente segnato.

A stento, lo zio Angelo rispose al saluto del suo ospite, rimanendo rannicchiato in un angolo, assorto nei suoi pensieri ed aspettando l’assicurazione che la moglie fosse opportunamente e delicatamente informata della sua disavventura.

“ Ma cu ci a porta ‘sta notizia ‘a casa?” si dissero poliziotto e carabiniere; la domanda, come bene s’intende, non poteva essere che retorica.

Loro due, proprio loro sarebbero dovuti andare; ma come, come comunicare la notizia a quella povera donna (per giunta sposina fresca), che con la legge non aveva mai avuto nulla a che fare e, come se non bastasse inoltre, a quell’ora tarda?

Si guardarono in faccia e, quasi senza parlare, decisero di comune accordo (fatto molto strano per un carabiniere ed un poliziotto..), decisero, dicevamo, di chiedere aiuto a Monsignor Arciprete Lo Sicco; lui avrebbe trovato le parole adatte per quell’incresciosa circostanza.

Si partirono, quindi, con la camionetta dei carabinieri, sulla quale avevano poco prima caricato quasi di peso lo zio Angelo, alla volta di Milocca, dove arrivarono che erano le venti passate.

Com’era prevedibile, trovarono la famiglia Lo Sicco a tavola per la cena, che avevano appena concluso la preghiera di ringraziamento e Serafina aveva cominciato a servire una minestra maritata, che tanto bene faceva all’Arciprete, aiutandolo ad andare di corpo ogni mattina come un orologio.

Si scusarono, quindi, per il disturbo arrecato, “ma, purtroppo, nun sapimu cuomu fari e sulu vossia ni’ po’ dari ‘na manu d’aiutu…” disse con un certo imbarazzo il carabiniere a Silvestre, che ancora prima che quello avesse finito di parlare si era alzato, per appartarsi e mettersi in ascolto dei fatti che dettagliatamente i due gli narravano.

“ Papà, vossa scusa, devo andare di fretta in paese”, fece Silvestre al Commendatore, che obiettò che non era per nessun motivo giustificabile una fretta simile, a meno che non si fosse verificata qualche sciagura.

“ Nessuna sciagura”, lo rassicurò il figlio, “ma. ”

“Allura, si nun c’è morti d’uomini, assettati e mangia prima e… macari vuautri”, disse rivolto ai due improvvisi ospiti, “ assittativi e pigghiativi un muzzicuni “.

Silvestre non ribatté e, poiché nessuno mai si sarebbe sognato di non accettare un invito del Commendatore, anche quei due, dopo avere ringraziato, si ritrovarono seduti in attesa che Serafina servisse loro quella minestra calda calda.

Sbadatamente, però (quando si dice il diavolo ca s’arrimina casa casa), la ragazza andò a rovesciarne un mestolo sui calzoni del Carabiniere, che con grande imbarazzo si ritrovò nella situazione di quello che, sofferente di prostata, non ha fatto in tempo per andare a soddisfare il suo fisiologico bisogno.

Bisogna dire, tuttavia, che fu proprio lei a soccorrere spedita il militare, invitandolo a seguirla in cucina, dove rimediò al danno, che involontariamente aveva provocato, in maniera veramente efficace e senza neppure fargli togliere i pantaloni.

Rientrarono in sala da pranzo che la cena era quasi finita e poterono consumare solo un po’ di frittata, che Pepè orgoglioso delle ospitali premure della moglie aveva loro messo da parte.

Finalmente, l’Arciprete con l’aiuto del poliziotto montò sulla camionetta, alla guida della quale il Carabiniere si diresse alla volta di Leonforte.

Arrivarono davanti al portoncino di Carmelina che le dieci erano passate da un pezzo; scesero dalla macchina e prima di tabuliare si fermarono ad ascoltare alcune voci, che venivano fuori dal finestrone socchiuso.

Era la sposina, che in compagnia di alcune vicine recitava il rosario in onore di Santa Rita, la santa dei casi impossibili, perché aiutasse lo zio Angelo ad assolvere l’obbligo coniugale.

“ Sin che Dio ci tiene in vita diamo gloria a Santa Rita”, declamava una, “ sempre, sempre sia lodata Rita in cielo coronata” rispondevano all’unisono le altre.

Lo Sicco s’intenerì al suono di quelle voci e decise di aspettare che finissero almeno la posta, che avevano in corso, prima di recare la ferale notizia.

Quando Carmela venne ad aprire si meravigliò della presenza dei tre e poco mancò che “ ittassi i vuci”, lanciasse le grida di dolore, a cui si lasciavano andare le donne quando moriva un loro caro. Si dispose, tuttavia, ad ascoltare.

Ma quando l’Arciprete finì di esplicitare il motivo di quella visita fu colta da malore e svenne.

Quando si riprese, quasi imbambolata, si chiuse nella camera da letto, dove rimase per una decina di minuti, per riapparire con una valigia con le cose dell’inadempiente marito, che accusava non solo di non fare il suo dovere con lei, ma pure di lasciarsi andare alle più invereconde lascivie con le prostitute.

Senza parlare, si caricò la valigia, attraversò la strada ed andò a bussare al portoncino del tabacchino di Tufano Mobilia, che faceva casa e bottega.

Don Tufano, che era persona molto perbene e discreta, senza mostrarsi per nulla infastidito per avere avuto interrotto il sonno, in pigiama e senza chiedere il motivo di quell’improvvisa visita, scese da basso e si vide depositare quella valigia davanti casa, e…..

“ Tufà, fammi ‘u favuri, tenitilla tu sino a quando quella fattaspecie di mio marito non viene a prendersela e digli di non farsi più vedere davanti gli occhi miei”, si sentì sibilare dalla “sposina”, che andò via senza neppure augurargli la buona notte.

Il fattaccio che coinvolse Angelina e, loro malgrado, lo zio Angelo e la di lui sposa bianca fece in brevissimo tempo il giro di Leonforte e dei paesi vicini e giunse persino alle orecchie purissime e vereconde delle reverende madri salesiane e delle consorelle di Santa Rita, che (non si riuscì mai a capire in che modo e come mai con tanta celerità) informarono subito quello spilungone del Segretario del Vescovo, che “sine ulla interposita mora” rese immediatamente edotto Sua Eccellenza.

“ Non è concepibile”, si accalorava il giovane Segretario mentre riferiva al Pastore, “ che a Leonforte succedano cose di questo genere con grave scandalo per il Popolo di Dio; Eccellenza sarebbe bene che si prendessero provvedimenti”.

Non era un mistero che tra il giovane prete e Monsignor Silvestre non corresse buon sangue. Capita. Capita in tutte le migliori famiglie e anche nella Santa Chiesa capita che…

Per cui, il Vescovo, conoscitore di uomini e di anime, mostrò di volere lasciare correre, “ Si. Si, giovedì sarò ospite dei Lo Sicco a Milocca…vedremo”, rassicurò lo stizzito Segretario.

A Milocca, chiamò da parte Silvestre con il fratello del quale si era intrattenuto in gioventù nel salotto di via Trieste e,

“ Sirbestru, figghiu miu…chi succedi a Leonforte? Facimu attenzioni….” aveva cominciato ad ammonirlo paternamente.

La risposta dell’Arciprete fu educatissima, ma prontissima, “ Eccellenza, chi succedi? Succedi chiddu ca’ succedi ‘nti l’autri paisi, con il suo permesso, succede che unni ci su’ campani, ci su buttani…”