di Salvo La Porta

Il Maresciallo dei Carabinieri (dopo un accorato discorsetto di circostanza circa l’inopportunità di frequentare certe case e l’obbligo morale per l’onesto cittadino di uniformarsi alla legge) fece rilasciare il pomeriggio sul tardi lo zio Angelino, con la promessa che, per l’avvenire, avrebbe “rigato dritto”.
Il poveretto, a testa bassa e le braccia penzoloni, aveva ascoltato il sermone senza battere ciglio, arrossendo per la vergogna e trasalendo ogni qualvolta il Militare si accalorava nel richiamarlo al suo dovere di sposo, che avrebbe dovuto avere come unico scopo della vita la fedeltà coniugale, l’amore per la Patria e l’osservanza dei precetti religiosi.
“ Caro don Angelo, da lei non me lo sarei mai aspettato.
Farsi scoprire in un atteggiamento tanto inverecondo; mai, mai e poi mai, me lo sarei immaginato. Come, come ha potuto, a neppure un mese dalle nozze, tradire il talamo sponsale, offendere la Patria (disobbedendo alle sue leggi), vilipendere la Chiesa incurante dei suoi Comandamenti?”
“ Parli, parli almeno… dica qualcosa a sua discolpa; non stia lì fermo immobile, come se il fatto non fosse suo. Niente ha da dire…. Mutu addivintau? Ma ci ha pensato, prima di varcare la soglia di quella malfamata casa, a quella poveretta di sua moglie…ai suoi parenti…al Padre Arciprete, del quale inopportunamente, devo, devo pur dirglielo, vanta l’amicizia e la parentela? Mi consenta di constatare, e lo faccio con dolore al cuore, che il suo comportamento è stato quello di un impenitente libertino. Ricordi che ci sono valori, che non possono essere compromessi dalla sfrenata ricerca di soddisfare il proprio basso istinto sessuale.”
Parlava il Carabiniere con la foga del garante della legge ed il sacro furore del consumato predicatore; tanto che il poverino, sempre a testa bassa e sempre più costernato, non riusciva a discernere se stesse parlando il Maresciallo o l’Arciprete.
Inchiodato, nondimeno, dall’evidenza dei fatti, mentre quello sembrava avesse cominciato a prendere gusto nel mortificarlo, rifletteva a quali plausibili giustificazioni avrebbe potuto fare ricorso, per mettere fine a quel “ supplizio di Tantalo.”
“Guarda tu”, si diceva, “ ‘nti quali centu missi mi staiu attruvannu e poi…senza mangiari e senza viviri. Io libertino? Si nun ci fussi di cianciri, ci fussi d’arridiri…ma quali fimmini e fimmini? Quantu vali un piattu di pasta co’ sucu…”
Ad ogni buon conto, qualcosa doveva pur dire e, “ Marascià, chi ci puozzu diri? Munnu a’ statu e m’unnu è…nè io il primo e neppure l’ultimo…”
Furono queste parole, che richiamarono alla coscienza del Carabiniere qualche peccatuccio di quel genere (a cui, peraltro , non disdegnava di dedicarsi con una certa frequenza, quando si recava in “missione”) a convincerlo a rimettere il malcapitato subito in libertà.
La vergogna di avere conosciuto le patrie galere (lui che apparteneva ad una di quelle famiglie onorate e rispettate, che non hanno mai avuto a che fare con la legge) e l’acquistato rientro tra i cittadini liberi, dopo i tremendi minuti del “supplizio”, avevano messo le ali ai piedi dello zio Angelo.
Avrebbe fatto “cazzicatummili”, per rivedere la moglie, la cui burbera presenza a confronto di quanto aveva patito gli si affacciava come una paradisiaca visione.
La recente esperienza, però, consigliava di procedere con il massimo della prudenza.
Pensava, non a torto, che la gente fosse venuta a conoscenza della disavventura, da cui era stato investito ed immaginava già i commenti malevoli e le date di gomito, che i pettegoli del paese si sarebbero scambiati al suo passaggio.
“ Miegghiu pigghiari da vanedda, meglio non attraversare il Corso Umberto”, si consigliò opportunamente; e senza neppure avvedersene, costeggiò la “Caddivarizza” e si inerpicò per la via Portella, a testa bassa e cercando di evitare ogni tipo di incontro.
Nonostante le precauzioni prese, però, dovette fermarsi alcune volte, per rispondere al saluto di persone, che in vita loro non lo avevano mai salutato, “ amabilissimu don Angilinu, bentornato”, aveva addirittura detto uno, sogghignando senza ritegno.
“ Bentornato, bentornatu stu…tutti cosi sapi “, non aveva potuto evitare di pensare rispondendo frettolosamente al saluto e, allungato per come lui poteva il passo, arrancò per tutta la Portella, costeggiò il Piano Parano e sempre evitando per come gli era possibile ‘a strata, scivolò lungo i muri delle case della via Condotto e, quasi di corsa, fece la piccola salita della via Noto, per ritrovarsi, finalmente, a casa delle sorelle, anche queste nubili.
Ci vorrebbe un narratore vero, per raccontare l’incontro di quel figliol “prodigo” con i parenti più stretti che lo aspettavano; noi ci limiteremo a dire che le parole furon “conte”, nel senso che furono veramente contate, mentre abbondavano gli sguardi tra il biasimo per la trasgressione, la compassione e la rassegnazione a dovere armarsi di tanta, ma tanta pazienza, per sopportare il peso del pettegolezzo dei compaesani.
“Mah, cu l’avia diri….daveru unu abbu nun si n’avi a fari mai, mai bisogna meravigliarsi delle cose più strane…” e giù di lì, come se un’immane tragedia si fosse abbattuta sulla casa; sino a quando, una delle sorelle senza neppure parlare, gli fece segno con gli occhi, che sembravano essere automaticamente smossi da una specie di smorfia del mento, della valigia che Carmelina gli aveva preparato e che don Tufano, zittu tu zittu iu, molto discretamente aveva fatto recapitare in casa.
Il silenzio di don Angelo si trasformò, allora, in un mutismo, nel quale si chiuse per il resto della serata, avendo registrato di essere rientrato nella primitiva situazione anagrafica di “ signurinu”; e non riusciva neppure lui a capire come e perché si sentì persino sollevato.
Come si sa, “do’ muortu e do’ vivu sulu tri jorna si nni parra”, di qualsiasi fatto (buono o cattivo per quanto possa essere) se ne parla solo tre giorni. E dei fatti di quel poverino, dopo tre giorni, non se ne parlava più.
Sulla scia di quanto accaduto e sulla legge “Merlin” si continuò a parlare, però, (ed ancora oggi se ne parla) per molto tempo.
Tra i pochi argomenti di conversazione, su cui l’Arciprete e il farmacista Mazza andavano d’amore e d’accordo, c’era quello della difesa della dignità della donna.
Era indubbio, convenivano, che l’entrata in vigore della legge Merlin era stata partorita e fortemente voluta dalla senatrice socialista (prima donna ad essere stata eletta al Senato della Repubblica), al fine di abolire le cosiddette case di tolleranza,introducendo il reato dello sfruttamento e del favoreggiamento della prostituzione.
Era stato Cavour (proprio Camillo Benso Conte di Cavour), che rifacendosi ai regolamenti di Napoleone e con la scusa di controllare igienicamente la prostituzione, ad emanare il Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione, che sostanzialmente sanciva la nascita delle Case chiuse o di tolleranza, perché tollerate dallo Stato.
Nei fatti, però, lo Stato non si limitava a tollerare, ma quasi ne favoriva l’esercizio di queste case, assumendo lo squallido ruolo di una specie di azionista del meretricio organizzato, e lucrando sul mercimonio dei corpi delle donne, che si davano alla prostituzione.
Il 20 settembre del 1958 (data fausta per il Farmacista ed infausta per l’Arciprete, in quanto ricorrenza della breccia di Porta Pia), venivano finalmente chiusi i Casini.
Le motivazioni della chiusura erano certamente nobili e condivisibili; ma le immediate conseguenze (cosa veramente preoccupante) furono spesso devastanti.
Duemilasettecento donne si ritrovarono senza “lavoro”, prive di ogni sostentamento e sulle strade o consegnate amaramente al bordello, al postribolo ed al lupanare, in balìa della vorace ferocia di magnacci senza scrupoli.

Di questa triste sorte erano consce le povere donne e ben lo sapeva monsignor Lo Sicco, che la sera precedente la chiusura si era presentato in una delle Case di via Maddem a recare loro conforto, come era solito fare da tempo.
A Leonforte, in pratica, continuavano a funzionare tre salotti di piacere; uno nei pressi della Porta Crocifisso, uno dietro il monumento ai Caduti di Piazza IV Novembre ed un altro ancora nei pressi del Largo Parano.
Proprio nel salotto di Largo Parano non erano rari i litigi e le risse, che coinvolgevano a volte anche i comuni passanti e che si concludevano non di rado con accoltellamenti.
Una rissa scoppiò una sera, che coinvolse con ferite una decina di persone tra donne ed uomini, che tosto furono condotti in ospedale per essere medicati.
Dopo la medicazione quei gentiluomini e quelle gentildonne furono identificati ed opportunamente interrogati e redarguiti.
Una delle signore, che era stata accoltellata, non la smetteva di imprecare; tanto che il piantone, ritenendo erroneamente che fosse estranea ai fatti, volle interrogarla prima delle altre.
Riportiamo, per soddisfare la legittima curiosità del paziente lettore il contenuto dell’interrogatorio:
– “ è lei la signora Tale dei Tali, nata a Leonforte il… ed ivi residente in…?”
– “Si, iu sugnu”;
– “ risulta che le è stata medicata una ferita da arma da taglio; dove le è stata inferta questa coltellata, nel tafferuglio?”
– “ Ma in quali tafferuglio? Chiù supra do’ tafferugliu ma dettiru ‘a cutiddata, quasi ‘nto stomacu; più sopra del tafferuglio mi hanno accoltellata…quasi nello stomaco!”