A Milocca, fervono i preparativi per la trebbiatura. Ovviamente, sono tutti impegnati; anche lo zio Salvo. Per cui, con questo si fermano per un po’ i racconti.

di Salvo La Porta

Ma chi mai aveva introdotto in paese quel maledetto virus della parotite?

Al solito, tutte le congetture erano state avanzate gratuitamente dalla gente e tutti si sentivano in diritto di dire la propria su quell’epidemia, che affliggeva i leonfortesi.

Anche perché, gli “ orecchioni”, o come più volgarmente si diceva “ i botti”, non colpivano soltanto i bambini; anzi, inspiegabilmente ed in maniera più invasiva, tormentavano di più gli adulti. Specie i maschi.

Cosicché, come sempre accade, sotto la spinta del pettegolezzo emozionale, subdolamente fatto circolare ad arte da bigotti e beghine, non si tardò ad individuare come capro espiatorio di quel flagello la povera Angelina.

Si. Certamente un catanese, uno di quelli che la donna ospitava nella sua alcova di lascivia, aveva portato quel terribile male in paese.

L’Arciprete sarebbe dovuto intervenire. Subito si sarebbe dovuto fare qualcosa, perché quell’invereconda casa finisse di scandalizzare aprendo le sue porte agli incontri, in cui la donna e le sue frequenti quindicinali ospiti si concedevano nelle alcove della lussuria.

La voce, che più d’ogni altra, si levava sdegnata era quella della signorina Peppina Del Passero.

Si faceva sentire quella voce. Eccome, se si faceva sentire. D’altronde, era quella che durante le funzioni religiose intonava con le vibrazioni più alte le melodie, che inneggiavano alla verginità della donna ed alla morigeratezza dei costumi in quei tempi, in cui la dissolutezza aveva preso il posto della virtù.

La signorina Peppina era alta e sarebbe potuta essere stata considerata anche una bella donna; sempre che si fosse decisa ad indossare una “vistina” di un colore diverso dal nero, avesse modellato un po’ di più ai fianchi lo spolverino nero, lasciandolo magari un pochettino civettuolamente sbottonato, e non avesse tenuto così bassa la merlettata veletta, nera anch’essa, nel vano tentativo di nascondere l’occhio sinistro guercio.

Proprio l’occhio guercio e l’armoniosità della voce le avevano conquistato l’appellativo di “uorvu canariu”, canarino cieco.

A capo di una delegazione di pie donne e di uomini dabbene, si diresse quindi a Milocca, abbondantemente innaffiata di quel profumo “ Mio sogno”, senza cui mai si sarebbe sognata di uscire il piede dalla porta di casa.

Soffriva di maldauto la poveretta e, nonostante prima di salire in macchina e ancor prima di fare il segno della Croce ( nun si sapi mai, sempri machini sunu..) avesse inghiottito furtivamente una compressa di “valontan”, arrivò a destinazione con l’unico occhio fuori dall’orbita.

Il tramazzamento del viaggio non le impedì, tuttavia, di esporre a Monsignor Silvestre le ragioni del popolo cristiano leonfortese, del quale era portavoce e che, non solo era sconvolto dalla scandalosa condotta di quella donna ( gli uomini erano poveretti inconsapevolmente irretiti dal piacere del sesso), ma era seriamente preoccupato dalle conseguenze, che quasi come un “castiu di Diu” cominciavano a flagellare il paese.

Le ragioni della delegazione furono attentamente ascoltate da Monsignor Lo Sicco, che con molto garbo e cristiana comprensione fece in modo che i delegati ricordassero che, infine, si stava parlando pur sempre di una sorella. Una pecorella smarrita, certamente; ma sempre una pecorella del gregge di Dio, il cui rifugio aveva visitato diverse volte nel fallace tentativo di riportarla all’ovile.

“ Lo sapete bene”, diceva con un leggero quasi complice colpettino di tosse rivolto ad alcuni di quegli uomini dabbene, “ lo sapete bene quante volte con alcuni di voi ci siamo incontrati sull’uscio di quella casa!”

Alla sua tosse, altri colpettini ne seguirono di quegli uomini, che a reclamare erano venuti insieme alle loro donne le quali, come se l’Arciprete “ avissi scuppunatu ‘na pignata”, lanciavano occhiate di fuoco ai mariti, lasciando intendere che a casa avrebbero fatto i conti, “ ‘a casa ‘ni parramu..”.

Si concluse che le malattie arrivano, perché devono arrivare e se arrivassero, perché Dio punisce gli uomini a causa dei loro peccati, specie quello della carne, il mondo sarebbe già finito da un pezzo sotto il peso del Suo anatema.

Mentre quell’improvvisato incontro stava per concludersi, da una camera accanto giungevano leggeri grida di dolore, che via via andavano aumentando di intensità.

In un primo momento, avevano pensato che si trattasse del miagolio di alcuni gattini ( c’era sempre una gatta figliata a Milocca), ma ben presto si capì che si trattava di una voce umana.

Era Pepè. Da qualche giorno non riusciva quasi più ad inghiottire, aveva persino difficoltà a deglutire e sotto le orecchie gli si erano formate due grosse bozze, che non pronosticavano nulla di buono.

Non ci potevano essere dubbi, era stato anche lui contagiato. Aveva preso gli orecchioni.

“Macari chista ci vulia….iddu ca nun quagghia! Ora i botti? Daveru buoni simu misi”, pensava Serafina trepidante.

La trepidazione di Serafina aveva una duplice origine; la giusta preoccupazione di una moglie devota e, fatto più dirompente, il terrore che i postumi della malattia potessero compromettere le capacità dell’uomo di adempiere agli obblighi coniugali.

Si ripeteva, infatti ed a ragione, che la parotite, specie se presa in età adulta, poteva avere degli effetti terribili sulla virilità, sino a giungere alla (Dio ce ne scampi e liberi) impotenza sessuale.

Ora, se si considera che Pepè non si può dire avesse in corpo il fuoco dell’Etna e che Serafina avesse il suo bel da fare, per stuzzicare i suoi sensi, si può solo immaginare come la trepidazione della donna si sia tosto trasmutata in angoscia.

Si decise, quindi, di comune accordo con Monsignore, che intanto era riuscito a portare alla ragione la delegazione, di recarsi in paese ad esporre al dottor Lorenzo Fantauzzo i sintomi, che presentava Pepé, ed implorarlo che venisse subito a Milocca e prescrivesse le cure opportune alla sua guarigione e, cosa più importante, a scongiurare la malaugurata evenienza dei “postumi”, che angosciava la donna.

Fantauzzo, da quell’ottimo medico che era e dalle concitate parole di Serafina diagnosticò subito che il “puurieddu”, il poverino, aveva preso gli “orecchioni”; che non si perdesse tempo, quindi, si andasse dal farmacista Mazza a comprare la pomata all’ittiolo, che tanto in quei giorni ne preparava a cantara, a quintali, e la si spalmasse subito sulle ghiandole sotto le orecchie dell’ammalato. Lui sarebbe venuto a Milocca, il prima possibile.

Quasi senza salutare il medico, Serafina scappò via per la farmacia e, non chiedetemi come (e con chi, visto che non aveva macchina), ma di certo veloce come il vento si ritrovò a Milocca, a spalmare di quella pomata giallognola il suo uomo, il quale con in testa il fiocco del panno bianco che tratteneva la carta oleata, che copriva l’unguento, aveva assunto l’aspetto dell’uovo di Pasqua.

Davvero nella farmacia di Mazza non c’era il tempo di respirare, tante erano le richieste di pomata, ma il professionista si ritagliava sempre lo spazio per chiacchierare un po’ con il suo amico Silvestre, con il quale quel giorno si stavano intrattenendo sull’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Ungheria.

“La divisione del mondo in blocchi non è cosa che può durare”, convenivano, “ tuttavia, si illudono gli ungheresi, se pensano che gli americani e quelli dell’Europa libera possano venire in loro aiuto. Armi quante ne vogliono; ma non parliamo di rischiare… alla fine quelli come i ladri di Pisa sono. Fingeranno di litigare e faranno i loro interessi sulla pelle dei Magiari”.

Mentre si intrattenevano su questi argomenti di alta politica, Monsignore cominciò ad avvertire qualche difficoltà a deglutire.

“ O, mamma mia”, pensò; quindi, rivolto con studiata noncuranza all’amico, “ duttu’, nun puozzu agghiuttiri buonu, dottore non riesco a deglutire bene…vuoi vedere che?” Mazza gli si avvicino e lo palpò sotto le orecchie; quindi, gli fece tirare fuori la lingua e, “ sta tranquillu” disse,” non sono orecchioni…al massimo può essere mononucleosi, la malattia del bacio, ca’ nenti nenti? Hai la coscienza a posto?”

L’epidemia aveva assunto dimensioni tali che il Sindaco dovette interessarsene e con vero zelo se ne interessò e cercò di preservare la salute dei suoi concittadini.

Aveva anche emanato alcune ordinanze a salvaguardia della salute pubblica Nino Rubino, ma Giovannino Carosia non si risparmiava, per metterlo in difficoltà nelle Assemblea del Partito Comunista.

L’ultima si era celebrata alla Camera del Lavoro, tanti erano i partecipanti.

“ Angilina nun c’entra nenti”, arringava Giovanninno, “ il problema è l’igiene pubblica… vi sembra giusto esporre la carne macellata senza nessuna precauzione? Frutta e verdura esposta fuori senza un velo protettivo…un ricettacolo di insetti e fonte d’infezione. Ci vuole un’ordinanza. Il Sindaco faccia un’ordinanza!”

Il Sindaco aveva fatto il suo dovere di prevenzione e, seppure concordando sul fatto che i cibi non dovessero essere esposti all’aria aperta, riteneva che per la carne macellata si dovesse procedere al divieto di esposizione, mentre per la frutta e la verdura sarebbe potuta bastare la raccomandazione agli esercenti di coprire la merce in maniera opportuna, magari con un velo; anche in considerazione che la merce esposta è mezza venduta. L’ Amministrazione, e il Partito, avrebbero perso le simpatie dei commercianti.

“ Vero”, ribatteva Giovannino, “ma in compenso guadagneremo le simpatia dei cittadini, che tengono all’igiene e alla salute”.

Si continuò a dibattere per ore intere…Carosia, alla fine e come sempre, forte di quella sua logica a volte capziosa, riuscì ad avere la meglio ed il Sindaco Rubino fu costretto ad emanare l’Ordinanza, che vietava l’esposizione delle merci alimentari all’aria aperta.

Era scontato che i commercianti si lamentassero giustamente; per cui, uno di loro prendendo coraggio decise di affrontare l’ispiratore di quel provvedimento e, “ Giuvanni’, ti pari giustu? Iddu ca’ nun si travagghia, non solo non si vende, ma….farci tenere la merce dentro la bottega..non mi sembra una cosa giusta!”

“Ragiuni hai”, si affrettò a rispondergli Carosia avvighiandolo con un braccio al collo, “ io l’avevo fatto presente al Partito…ma Rubino…lui è il Sindaco…chi t’aju a diri? Che ti posso dire? Mentri tutti vulimu cumannari! “