Leonforte. “E’ la seconda presentazione a Leonforte. E’ meno istituzionale della prima, che fu organizzata in pieno Covid, ma importante allo stesso modo, perchè organizzata dall’Associazione Antiracket di Leonforte, un gruppo di uomini e donne che come me vogliono una città diversa, fatta di gente libera”. Così Josè Trovato, giornalista direttore di EnnaOra e collaboratore di Live Sicilia, autore di Mafia 2.0-21, il libro denuncia che svela tutti gli affari di Cosa Nostra nel cuore della Sicilia, dalle riunioni convocate “tra il ’91 e il ’92 a Pietraperzia, dove Totò Riina e la commissione regionale mafiosa organizzarono le stragi di Capaci e di via D’Amelio” – logisticamente curati da “quegli stessi mafiosi pietrini”, ha ribadito, “che oggi sono i nuovi capi della mafia ennese” – agli affari di oggi. Alla presenza dei vertici del Commissariato di Leonforte, del dirigente Francesco Coppola e del suo successore, che gli subentrerà a settembre, Giuseppe Travagliante, di personale della Questura, del capitano del Gruppo di Enna della Guardia di Finanza, Luigi Scimeca, del comandante della sezione operativa della Compagnia di Enna dei Carabinieri, il sottotenente Antonio Di Stefano, nonchè di una delegazione di vigili del fuoco del distaccamento di Leonforte, l’autore ha passato in rassegna la storia della mafia ennese, introdotto dal moderatore Nuccio Lattuga, dopo il saluto del vicesindaco di Leonforte Salvatore Barbera e gli interventi del presidente dell’Associazione Fai Leonforte, organizzatore dell’evento assieme a Grazia Costa, il cavaliere Gaetano Debole; e del coordinatore regionale Fai Sicilia Renzo Caponetti, presidente dell’Associazione Gaetano Giordano di Gela.

“Quando cominciai a occuparmi di mafia, Cosa Nostra ennese andava a braccetto con quella nissena. Addirittura uno dei più pericolosi boss della storia dell’entroterra mafioso, come Giuseppe Piddu Madonia, amava dire che Enna era un suo “feudo” – ha ricordato Trovato -. Poi però il baricentro del potere si è spostato sempre di più verso Catania. Oggi sulla mafia di Enna comanda solo il clan Santapaola, la “partnership” con il Nisseno evidentemente si è conclusa. Era il 2005 quando iniziai a scrivere di mafia e nel 2007 pubblicai “La mafia in provincia di Enna – Una storia negata”, un testo finalizzato a sfatare il mito del negazionismo della mafia ennese. In quel libro c’erano interviste anche a persone che negavano l’esistenza della mafia in questa terra. La negavano perchè non percepivano il problema. Peccato che il novanta per cento del libro sostenesse l’esatto opposto. Poi la mafia ennese subì una mutazione, un orientamento verso il basso, un imbarbarimento. Sono gli anni in cui nacque il clan ridicolo di Leonforte, allo stesso tempo un vecchio picciuttazzu del boss Gaetano Leonardo “u liuni” diventava il nuovo capo di Enna; e credetti che, una volta toccato il fondo, la mafia di questa provincia fosse destinata all’oblio. Allora, nel 2015, scrissi “Mafia balorda”, raccontando una mafia che ormai era in mano a gente di questo tipo. Pensavo di aver finito. Poi però l’organizzazione criminale si è ripresa, ha rimesso in moto gli affari e sono tornati ad alzare il livello. Messo da parte quel pastore di Mirabella Imbaccari che faceva il capo provinciale, il potere è tornato nelle mani di un clan storico, temibile, come quello di Pietraperzia (emerge dall’inchiesta Kaulonia). Contemporaneamente ha lasciato il carcere l’avvocato-boss Raffaele Bevilacqua, le cronache dell’inchiesta Ultra ci raccontano di come avrebbe ripreso a fare il mafioso, e il clan di Leonforte si è rafforzato, come svelato dalle inchieste Good Fellas e Caput Silente. A quel punto ho deciso che la narrazione non poteva concludersi con “Mafia balorda”. Da qui nasce il sottotitolo di Mafia 2.0-21: “Nel cuore della Sicilia comandano iene, sciacalli e i maggiordomi di Totò Riina”. Iene e sciacalli sono quei “sopravvissuti”, si fa per dire, alle inchieste di metà anni ’20 del nuovo millennio, coloro che secondo Tomasi di Lampedusa venivano dopo i Gattopardi; mentre i maggiordomi di Riina l’ho già detto: quelli che ieri portavano il formaggio nella villeggiatura a Totò u curtu tra il ’91 e il ’92, oggi sono i capi della mafia ennese. Secondo me andava raccontato, assieme a tante altre storie impensabili di questa terra. E infine c’è il capitolo attuale, con la mafia che s’insinua nei lavori pubblici occupandosi delle forniture: non solo forniture di materiali, di noli o altri oggetti, ma anche di manodopera. Le forniture di manodopera sono, a mio avviso, ciò che consente a tante ditte mafiose di continuare a lavorare aggirando le norme antimafia. Ma è una mia idea”.

Trovato ha poi raccontato alcuni retroscena relativi ai “parenti dei mafiosi”, specificando di non riferirsi affatto a persone che hanno ritenuto di dover reagire in questi giorni. Sono “persone di cui non si può fare il nome, perchè non hanno commesso alcun reato”. E ha raccontato delle telefonate esplorative ricevute “dalla moglie di un trafficante di droga”, dei messaggi privati ricevuti dal figlio di “un boss”, che sosteneva che “siccome i veri mafiosi erano i politici allora suo papà era innocente”. E, ancora, quella mamma di un giovane in galera “che all’improvviso, dopo ripetute telefonate affinchè mi preparassi a scrivere l’assoluzione del figlio, oggi su Facebook ce l’ha con me, proprio ora che si avvicina la sentenza. E io scriverò la sentenza, qualunque essa sia: non ho certo bisogno che mi chiami lei”; o “la telefonata lunghissima di una donna che aveva saputo dal suo legale che stavo scrivendo sul rinvio a giudizio di suo marito e cercava di convincermi a non occuparmene”; o, infine, le riflessioni storico-antropologiche e criminologiche del parente di un altro mafioso, “a cui ho fatto capire che non era il caso di scrivermi perchè sapevo di chi fosse parente, che da quel giorno mi accusa di attaccare la sua Terra”. “Perchè parlare di mafia, raccontare ciò che la mafia ha fatto – ha concluso, con una battuta, Trovato – significa volere il male di questa Terra, non lo sapete?”.

Nel suo intervento, il presidente Debole ha ricordato l’importanza della denuncia, da perseguire e da portare avanti sempre e comunque contro i clan, lui che ha denunciato gli affari della cosca di Giovanni Fiorenza e dei figli Alex e Saimon e che è stato oggetto di ripetuti tentativi di intimidazione per questo. Debole ha parlato pure dei danni della corruzione: lavorando a un appalto a Palermo – dopo aver già mandato in galera i mafiosi di Leonforte che gli chiedevano il pizzo, non esitando a indossare una videocamera della polizia per riprendere Alex “u stilista” mentre gli chiedeva di pagare la messa a posto “a Natale e a Pasqua” – si sarebbe visto rivolgere delle richieste di tangenti da parte di alcuni funzionari. Oggi presidente della Cassa Edile di Enna, Debole anche in quell’occasione non ha esitato a scegliere lo Stato, e ha denunciato. “Ma è un sistema che in qualche modo cerca di vendicarsi – ha concluso, amaramente – e lo vedo tutti i giorni”. Dal canto suo Caponetti, dopo un intervento concentrato sulla mafia di Gela e le numerose denunce di imprenditori nella sua Terra, che il quotidiano francese Le Monde una volta definì “Mafiaville”; ha fatto ascoltare alla platea un servizio di Angelo Ruoppolo di Teleacras, che riferiva i retroscena dell’inchiesta “Stella Cadente”, con cui la Squadra Mobile di Caltanissetta, il Commissariato di Gela e lo Sco di Roma hanno mandato a gambe all’aria il tentativo della “Stidda” di rialzare la testa in terra gelese. Un tentativo sventato anche grazie alla denuncia di alcuni coraggiosi imprenditori, accompagnati alla denuncia proprio da Caponetti.