di Salvo La Porta
Avevano finito di trebbiare da due settimane a Milocca e, al riparo del caldo torrido di Luglio, Monsignor Lo Sicco in compagnia della madre Sarina e del Commendatore Peppino Lo Sicco Tramontana, cominciava a spezzettare il pane immergendolo nell’insalata di limoni, che Serafina aveva appena servito nella larga insalatiera di ceramica bianca, posta al centro della tavola imbandita con una tovaglia a scacchi bianchi e rossi.
“ L’inquilina in bocca”, diceva la donna, faceva venire solo a vederla quell’insalata; i limoni appena colti erano stati tagliati grossolanamente a pezzi, annegati in acqua e ghiaccio ed innaffiati da abbondante olio di oliva, quello buono, spolverati di sale e pepe nero e adornati di profumate foglioline di menta fresca .
Veramente, anche qualche spicchio d’aglio non ci sarebbe stato male, ma donna Sarina l’aglio crudo non lo sopportava proprio. Chi lo voleva, l’aglio lo poteva mettere nel suo piatto e il Commendatore e Monsignore non si lasciavano certo pregare, tanto che poi non gli si poteva stare vicino dalla puzza, quando parlavano e gli incauti interlocutori erano costretti a guardare da un’altra parte o ad allontanarsi ora con una scusa ora con un’altra.
Regnava una serenità di Paradiso, resa ancora più limpida dalla felice costatazione che i magazzini erano stracolmi di grano ed il Commendatore (dai conti che aveva fatto) registrava che gli incassi della vendita avrebbero superato di gran lunga ogni più rosea previsione.
Sembrava che nulla e nessuno potesse turbare la soavità di quella frugale agape. Sembrava.
Come il fragoroso tuono, che segue al fulmine a ciel sereno, il frastuono della tromba della macchina di Gaetano Lavitola irruppe su quel dolce, familiare convito.
Donna Sarina trasalì ed il Commendatore a stento riuscì a cacciare in gola una bestemmia che tosto, fulminato da uno sguardo dolce e severo di Monsignor Silvestre, mutò in “o, porca Terra disgraziata!”
Tutti e tre, tuttavia, non vennero meno alla tradizionale ospitalità della casa e, seppure per “faccifarìa” con la segreta speranzosa certezza che Gaetano non avrebbe accettato, lo invitarono ad accomodarsi alla loro mensa.
Come avevano ben previsto, Lavitola non accettò l’invito, protestando che la moglie Maricchia, dalla bellezza della quale non riusciva mai a staccarsi, lo stava aspettando.
Chiese timidamente scusa per il disturbo, ma non aveva potuto farne a meno, vista l’urgenza della missione che gli era stata affidata.
Un primo cugino di donna Sarina (che erano come fratelli e che viveva da tempo a Letojanni, il ridente paesello a due passi da Taormina, che a quella più nota città già allora per accoglienza nulla aveva da invidiare) gli aveva affidato una lettera con la preghiera di consegnarla nelle mani di Monsignor Arciprete.
Solo nelle mani dell’Arciprete avrebbe dovuto consegnarla; il più presto possibile.
Ecco fatto. Adesso poteva finalmente andare a casa e, “…scusate ancora per il disturbo. ”
“ Ma chi disturbu e disturbu, quali disturbo, t’amu a ringraziari nuautri anzi… noi ti dobbiamo ringraziare”, si affrettò a rassicurarlo donna Sarina, invitandolo questa volta non “pi’ faccifaria” ma con tutto il cuore a bere almeno un bicchiere di acqua e zammù.
Prima ancora che Gaetano potesse dire si o no, Serafina gli porse un bicchiere di cristallo ricolmo di acqua, ghiaccio ed anice, su cui galleggiava la mosca di un chicco di caffè.
L’autista ringraziò, bevve tutto d’un fiato, si asciugò la bocca con la manica della giacca e si congedò.
La lettera, intanto, era rimasta poggiata sul tovagliolo di Monsignore, che moriva dalla voglia di leggerla, ma la sua posizione di prelato non gli consentiva di lasciarsi andare alla curiosità; almeno, prima che la colazione fosse finita e in pubblico.
In considerazione dell’inveterata usanza del pettegolezzo (figlio della curiosità) praticato con assiduità a Leonforte, aveva fatto la raccomandazione finale delle sue omelie, “ adesso figlioli vi lascio con le parole di Padre Pio, guardatevi dalla curiosità..”
I fedeli le conoscevano a memoria quelle parole e prima ancora che lui cominciasse a pronunziarle, le biascicavano sotto voce, sollevati che la predica si fosse finalmente conclusa.
“ Ragiuni avi, difatti, so’ mamà curiusa è? No, quannu mai…” si sussurravano a denti stretti, felici di avere potuto parlare di quella particolare debolezza, che caratterizzava donna Sarina.
La lettera, tuttavia, era indirizzata a lui e il contenuto poteva avere essere importante. Certo che era importante…se no il cugino perché l’avrebbe affidata a Lavitola, piuttosto che inviarla per posta.
Si determinò, quindi, che l’avrebbe aperta subito dopo alzati da tavola.
Aveva, però, fatto i conti senza la curiosità della mamma, “ leggila, vedi che c’è scritto”, gli intimava quasi la mamma.
“ Ma, mamà…”, fingeva di volersi schermire e di opporre resistenza.
“ Ma chi mamà e mamà, leggila e basta. Infine, è una lettera di mio cugino ed io ho il diritto di sapere che ci scrive”, furono le ultime parole senza appello della donna.
Mostrando ipocritamente di capitolare dinanzi all’insistenza materna, Monsignor Lo Sicco si sfilò il fazzoletto di lino bianco, che teneva attorno al collo allo scopo di prevenire i dolori cervicali, lo spiegò perbene e se lo passò sul volto smagrito, asciugandosi il sudore che (vuoi per la calura, vuoi per la curiosità) gli scorreva come una lavina sullo smagrito volto.
Infilò, dunque, la mano destra dentro la tonaca e nel silenzio assoluto, appena interrotto dallo scricchiolio dell’òmero, si mise a cercare gli occhiali da vicino, che tosto inforcò, mettendosi a leggere il contenuto della lettera quasi compitandone a voce pressoché impercettibile la notizia.
“ O bedda matri…”, esclamò con un sibilo della voce, che sembrava provenisse dall’oltretomba, “ ma chi fu? Pazzu nisciu…” e si abbandonò sulla seggiola muto come quello “ che per lungo silenzio parea fioco” e bianco come un lenzuolo.
Il Commendatore non fece granché caso al malessere del figlio. Era abituato a quelle reazioni di fronte ad avvenimenti o a notizie che lo turbavano; ed, in verità, anche donna Sarina aveva imparato a non preoccuparsi troppo.
Ma sempre un cuore di mamma aveva. Si precipitò, quindi, da Monsignore e gli fasciò la fronte con un tovagliolo bagnato, avvicinandogli alle labbra cianotiche un bicchiere d’acqua fresca, perché ne bevesse qualche sorso.
Non si era ancora del tutto riavuto il poveretto che, sopraffatta dalla curiosità, afferrò la lettera, leggendola tutta d’un fiato, quasi con voracità.
Questa volta, fu il Commendatore a dovere prestare i primi soccorsi alla moglie, abbandonatasi priva di forze sulla seggiola.
La rincuorò, la fece bere e quando gli parve che potesse plausibilmente rispondere, chiese , “ volete dirmi che cosa diavolo vi ha mai scritto, per farvi perdiri i sensi?”
Poiché Silvestre continuava a non dare significativi segni di risveglio, toccò alla donna dare spiegazioni.
“ Mio cugino si sposa…”, disse tutta d’un fiato.
“Che sarà mai?”, obiettò il Commendatore, “Vedovo è.
Che male c’è?”
“ Certu, u sacciu ca è viduvu….u sacciu; il fatto è che si sposa con la nipote, la figlia della sorella della moglie, venticinque anni meno di lui!”
Fu il Commendatore, adesso, ad avere bisogno del soccorso di Serafina che (essendosi “siggiuta”, ascoltata, non vista tutta la conversazione) corse a portargli un bicchiere di acqua e zammù.
Le nozze si sarebbero celebrate la settimana seguente e gli sposi avrebbero avuto piacere che ad officiare il rito fosse Monsignor Silvestre.
Ovviamente, tutta la famiglia era invitata e tutti erano aspettati con vera gioia. I figli del Commendatore, Serafina e Pepè non potevano e non dovevano mancare.
Particolarmente gradita sarebbe stata, infine, la presenza delle sorelle Teresina e Agatina Rappè e del giovane figlioccio dell’arciprete, Tommaso.
Le camere erano state già prenotate a Palazzo Durante, proprio sulla piazza e a due passi dalla chiesa.
Si aspettava un immediato riscontro e positivamente il riscontro fu dato, affidando la stessa sera nelle mani di Gaetano Lavitola una lettera, nella quale si comunicava che Monsignore Arciprete di cuore avrebbe officiato il sacro rito delle nozze e con lui sarebbero stati a Letojanni la mamma Sarina ed il Commendatore.
Per gli altri invitati, vista l’urgenza, non poteva essere assicurata la certezza della presenza, ma sin da ora si poteva ragionevolmente prevedere che non sarebbero mancati alla cerimonia; che si provvedesse, quindi, ad ogni buon conto alla prenotazione delle camere.
Il cugino Paolo Lammiru, vispo sessantenne, sempre azzizzato, profumato e in estate vestito di bianco che sembrava il Papa, di buon mattino si presentò a Palazzo Durante, per confermare le camere di un intero piano, il secondo, riservando per donna Sarina ed il Commendatore la 227 con il balcone che domina la piazza e l’ampia finestra che si affaccia sul mare.
Lasciarono i nostri Milocca alle prime luci dell’alba, dopo avere caricato le macchine da noleggio di ogni abbondanza della terra ed affidato le chiavi della masseria ad alcuni contadini “ che ci si potevano lasciare in affidamento carichi d’oro, tanto erano onesti…”
Lasciarono Milocca con la nostalgia strisciante di chi è costretto a chiudere le porte di casa e quasi con le lacrime agli occhi; proprio come si è costretti a lasciare un figlio, che si affida alla custodia d’altri. Fidati, certo; ma sempre estranei.
Le fermate lungo il tragitto non si può dire quante siano state. Anche perché l’odore piccante del formaggio pecorino provocava a donna Sarina continui sobbalzamenti alla bocca dell’anima e la poveretta era costretta a viaggiare con il fazzoletto in bocca, implorando “ogni dui tri” con spropositata frequenza l’autista, “ Tanù, fermati. ”
Come Dio volle, arrivarono a Letojanni, accolti dall’affettuoso ossequio del personale di Palazzo Durante e dallo scampanio a festa delle campane della chiesetta, che ricordava la preghiera dell’Angelus ai fedeli.
Si sistemarono tutti nelle loro camere ed, appena il tempo di rinfrescarsi e cambiarsi abito, si ritrovarono all’una in punto nella sala pranzo a consumare i menù di pesce che, in concorrenza tra di loro, Giovannirosario e Antonella avevano preparato.
C’era davvero da leccarsi i baffi; tanto che lo stesso Commendatore, di solito tanto compassato, ci tornò due volte sugli spaghetti alle vongole e bisognava vedere con quale allegria spargeva sul piatto le foglioline di prezzemolo fresco appena tritato con la mezzaluna in cucina.
Ma il capolavoro del pranzo fu il gelo di melone, che Antonella aveva voluto servire lei stessa in tavola e che si conquistò i complimenti della Signora Sarina ( finalmente a Letojanni la appellavano nel modo giusto..), che davvero era più buono del suo.
Rifocillati, ma stanchi morti, non vollero neppure una tazzina di caffè ed andarono a riposare; ciascuno nella propria camera. Il caffè lo avrebbero preso, appena alzati, da Friscu,il bar gelateria da poco inaugurata, proprio accanto il Palazzo.
Doveva e poteva essere un sereno pomeriggio di dolce siesta. Poteva e doveva. Senonché, fu proprio il Commendatore ad essere svegliato da una moltitudine di voci, che si accavallavano confusamente e che assumevano in un crescendo spropositato per quell’ora il tono di grida di incredula e dolorosa sorpresa.
Si era appena sparsa la voce del ritrovamento nelle campagne limitrofe del corpo senza vita di un uomo dell’apparente età di sessant’anni.
Il poveretto era stato assalito da un nido di vespe ed era rimasto lì per non si sa quanto tempo, sino a quando una coppietta clandestina ( entrambi felicemente sposati con i loro coniugi) non ne aveva scorto il cadavere.
Superato il primo momento di sbigottimento, i due avevano deciso di denunziare il fatto ai carabinieri.
Ci avrebbe pensato Jacopo che, dopo avere consigliato alla donna di correre a rifugiarsi tra le braccia del marito, corse in Caserma a denunziare al brigadiere Gallodoro la triste scoperta, omettendo per gli ovvi plausibili motivi di cavalleria di specificare perché a quell’ora così calda si era ritrovato in un luogo tanto isolato e da solo.
Gallodoro si precipitò senza indugio nel luogo indicato dall’uomo in compagnia di un giovane carabiniere polentone alto due metri, biondo, con gli occhi cerulei e un po’ balbuziente, che alla vista di quel corpo martoriato per poco non svenne.
Fortunatamnte, però, (poiché non ci si capacitava come il solito gruppetto di “beneinformati” era giunto sul posto prima dei militari dell’Arma), una quarantenne biondastra e lentigginosa, gli venne in aiuto, che non le parve neppure vero, lo prese per mano, lo sorresse e lo fece riparare sotto un grande albero di millicucco.
“ E’ morto da almeno due ore”, sentenziò Gallodoro, “e non ci possono essere dubbi sulle cause della morte; comunque,meglio avvertire il medico legale e, nel frattempo, per favore qualcuno andasse a chiamare il Parroco, perché desse una benedizione alla salma, che non era da cristiani lasciarlo lì come un cane rognoso”.
Il giovane carabiniere, che nel frattempo si era ripreso dal malore, con il vivo disappunto della zitella che gli consigliava prudenza e non gli lasciava la mano, si mosse per andare in paese e obbedire agli ordini del superiore.
Si diresse, quindi, verso la casa canonica, perché riteneva che più urgente fosse benedire quel povero corpo; poi, si sarebbe recato dal medico, che abitava nelle vicinanze e lo avrebbe informato dell’accaduto, chiedendogli di provvedere agli adempimenti previsti dalla legge.
Trovò il Parroco, che parlottava con un frate cappuccino di colore, proveniente dall’Africa e che, in quel periodo di lavoro straordinario lo aiutava nelle funzioni religiose.
Gli raccontò concitatamente quanto era successo e rimase in silenzio sino a quando quello, che gli era sembrato restarsene imperturbabile, non gli assicurò che di lì a poco si sarebbe recato lì, dove il suo ministero sacerdotale lo aveva chiamato.
Nonostante, però, la sua affermazione il prete non si mosse e neppure il frate cappuccino sembrò fare una piega ed entrambi gli diedero l’impressione di essere stati infastiditi dalla sua visita; vero si è che senza chiedere alcuna informazione lo salutarono distrattamente, lasciandogli la sgradevole sensazione di sentirsi frettolosamente congedato con un freddo saluto.
La cosa lo turbò non poco, tanto che lungo il breve tragitto tra la casa parrocchiale e quella del medico ne parlò con quelli che andava incontrando e che oramai erano venuti a conoscenza del fatto.
“ Ma guarda tu..”, si lamentava con accento veneto,
“ guarda tu, se ad una notizia tale ci si deve sentire rispondere come se si avesse altro da fare”. Comunque, non gli restava che compiere l’altro suo dovere, recarsi dal medico.
Ma quando si dice…mentre bussava alla porta del professionista, una domestica si affacciò per dirgli che il dottore era a Taormina e che non sarebbe tornato prima di sera e, “ ma pirchì u cerca pi du fattu do’ mortu, lo sta cercando per il morto?”
In un battibaleno, la notizia aveva fatto il giro del paese ed era diventata di dominio pubblico.
Restava il fatto della benedizione del corpo, che non dava pace, tanto che sbottò a voce alta con il gruppetto di persone, che gli si erano fatte intorno, “certe cose non le capisco mica…ci vuole fortuna anche nella morte!”
Una donna, di quelle sempre presenti e sempre pronta a dare suggerimenti, allora gli sussurrò, “ se il Parroco non può venire subito….si potrebbe provare a Palazzo Durante; pare che in questi giorni vi alloggi un sacerdote (un santo!) insieme alla sua famiglia”.
Il giovanotto non se lo fece ripetere due volte e seguito da quella che era divenuta la folla vociante, che aveva turbato il sonno del Commendatore e della moglie, si presentò alla Reception a chiedere al giovane Alessandro di potere parlare con quel prete di santa vita, che alloggiava da loro.
Alessandro obiettò che a quell’ora non gli sembrava opportuno disturbare Monsignore, anche perché era da poco arrivato da un lungo e stancante viaggio.
Mentre il ragazzo parlava, tuttavia, fu proprio l’Arciprete a presentarsi con la tonaca sbittinniriata, stropicciata e male abbottonata e l’immancabile fazzoletto di lino al collo.
Non appena il giovane militare ne intravide la fioca immagine, troncò di colpo tutte le argomentazioni, che aveva cominciato a sciorinare, e corse ad inginnocchiarsi, afferrandogli l’ossuta mano per baciagliela.
Silvestre non fece in tempo a schermirsi e lo pregò che si alzasse e gli raccontasse il motivo di quella estemporanea visita, assicurandogli che “tutto si sistema, solo alla morte non c’è riparo…”
“ Appunto”, ribatté il polentone, “non ce n’è più riparo” e come un fiume in piena raccontò l’accaduto, non omettendo qualche acido commento nei confronti del Parroco.
“ Va bene, va bene”, tagliò corto Silvestre, “ verremo noi”, usando il noi sia come plurale maiestatis, che come la decisione che aveva preso di farsi accompagnare da Pepè.
In men che non si dica, Pepè affidò la moglie Serafina alla custodia di Tommaso, il giovane seminarista figlioccio di Lo Sicco (che con quel caldo non aspettava altro), si incarcò la paglietta bianca, di cui non si separava mai in estate, prese il breviario, la stola e l’aspersorio dello zio e gli fu compagno in quella triste missione.
Non si separava mai Pepè da quella paglietta, cosicché la maldicenza dei compaesani, insinuando un insano e spregevole sospetto sulla pudicizia della donna, pettegolava dicendo che gli serviva per nascondere le corna.
Che brutta cosa la calunnia!
Arrivati sul posto della disgrazia, trovarono il corpo già composto nella bara. Il medico aveva fatto il suo dovere e non si aspettava che il prete; finalmente si poteva procedere alla benedizione.
Silvestre indossò al stola nera e cominciò, “ de profundis…”; si fece quindi porgere l’aspersorio con l’acqua benedetta e benedisse quel martoriato corpo.
Mentre aspergeva il cadavere, tuttavia, non poté fare a meno di osservare come stranamente non si potessero evidenziare i segni dell’assalto delle api.
“ Boh…?” .si ripeteva; “strano, veramente strano e più strano ancora che non vi sia nessuno che lo pianga come un parente. Nessuno. Ma cu è chistu? Cuomu si chiama? Boh?”.
Mentre Monsignore si faceva queste domande, un giovane dell’età di Tommaso, si presentò e riconobbe il cadavere, Giovanni Prezzavento suo padrino. Il defunto abitava a Castelmola e non aveva altri parenti, se non quel figlioccio, che lo aveva riconosciuto e che non aveva versato neppure una lacrima.
Bisogna riconoscere che Pepè aveva svolto la funzione del sacrista in modo encomiabile. Composto e compunto, si tolse dal capo la paglietta e la poggiò ai piedi del povero morto, dentro la bara; quindi, compreso del pietoso compito, al quale era stato chiamato, si mise a coadiuvare Monsignore ora rispondendo alle sue invocazioni, ora porgendogli l’aspersorio.
Compreso com’era, però, dopo avere riposto stola ed aspersorio nella custodia, non si accorse che i becchini avevano chiuso la bara e, dentro la bara, la sua paglietta; fatto che, come vedremo, sarà risolutivo alla motivazione della morte del Prezzavento.
Solo a Palazzo si accorse della gravità della sua distrazione; quando Serafina, che era rimasta per ore in compagnia di Tommaso ( Dio gliene renda merito a quel ragazzo) gli andò incontro, per asciugargli con un fazzoletto la fronte madida di sudore.
“ Unni ‘a lassasti ‘a paglietta? Stunatu!”, gli sussurrava con dolcezza, mentre gli carezzava lentamente le tempie.
Una manata sulla fronte fu la risposta che diede prima a se stesso, quindi alla moglie, “ vo’ vidiri ca a chiusiru, dintra ‘u tabbutu..vuoi vedere che l’hanno chiusa dentro la bara?”
Senza perdere tempo, quindi, lasciò ancora una volta la donna alle cure di Tommaso ( povero ragazzo) e fece di corsa le scale, che portano alla cappelletta interna.
Lì avrebbe trovato Monsignore Arciprete e, ”si… gli avrebbe detto….Una soluzione lui l’avrebbe trovata!”
In cappella, Monsignore c’era; ma non era solo. Era in compagnia del cugino Paolo, con il quale non si capiva bene se fossero in conversazione o in confessione.
Pepè si risolvette di credere che fossero in conversazione; sicché, per non perdere tempo prezioso per la soluzione del problema della paglietta, si mise ad attendere dietro la porta, costretto suo malgrado, a sentirne il contenuto.
“ Ma figghiu miu, cuomu t’arrisurbisti, come ti sei comportato? Chi fusti pazzu? Raccontami, dimmi, raccontami senza tralasciare i particolari…. tutti i particolari, anche quelli più scabrosi”, aveva detto Silvestre.
Paolo non si meravigliò dell’esortazione del cugino.
Un’esortazione, nella quale i malpensanti avrebbero di certo intravisto una qualche pruriginosità, ma che lui vedeva nella semplicità della purezza della sollecitudine fraterna.
In verità, non erano state rare le volte in cui con quello si erano intrattenuti in questioni profane anche piccanti; ma adesso era un’altra cosa.
Per cui, si sbottonò e come una cascata d’acqua si diede al racconto dettagliato dei fatti, che lo conducevano al matrimonio con la nipote della moglie di venticinque anni più giovane di lui.
“ Alla morte della buonanima”, e qui si segnarono entrambi,” mia cognata Ninetta (una donna ancora di bella presenza, che dicevano somigliasse a Gina Lollobrigida ) non volle sentire ragione e pretese che mi trasferissi a casa sua; lei e sua figlia Pinuccia si sarebbero prese cura di me. D’altronde, il dolore che ci aveva colpito era troppo grande e vivere insieme e nel ricordo della buonanima”, altro segno di croce di entrambi, “ non poteva che fare bene a tutti. Mi convinsi e mi trasferii a casa loro, dove mi assegnarono una bella camera con una bella vista sul mare ed il bagno (…che non è poca cosa alla mia età..) a due passi. Trascorrevamo la vita serenamente e religiosamente, scandendo le giornate tra lettura, un po’ di radio e preghiera. Senonché….” e qui Paolo con un po’ di imbarazzo si interruppe.
Ma l’Arciprete conosceva bene il suo mestiere e “ Senonché che cosa? Parra, di mia t’affrunti, ti vergogni di me?” lo incalzava.
Messo alle strette… lo sventurato rispose. “Senonché, in un giorno di particolare caldo, un giorno come questo, dopo pranzo mi ero messo a riposare, lasciando il finestrone aperto e la porta a vanidduzza, socchiusa. Mi ero appena appisolato, quando accanto a me ebbi la sensazione che si strusciasse il corpo di una giovane donna. Mi parve un sogno. Un bellissimo sogno; uno di quelli che facevo da ragazzo e. ” E che cosa?” continuava ad incalzare il prete.
“ Il fatto è che il sogno si ripeté per tanto tempo e sempre alla stessa ora….sino a quando mi accorsi che non era un sogno, ma era mia nipote Pinuccia!”
“Ah, si? Bravu….e tu, disgraziatu piccaturi, chi facisti? “ cominciava ad inveire Silvestre, “ chi facisti ? Parra.”
“ Chi fici? Tu chi avissi fattu, tu cosa avresti fatto? Non sai che sesso arrapato non guarda parentado?”
Silvestre lo sapeva bene. Eccome se lo sapeva; per cui, cambiò il registro del tono della voce, “ come potrai darle conto alla tua età?” chiese con sommessa complicità.
“ Cosa vi devo rispondere, caro cugino? Per ora, penso io….domani pensa Dio…” fu la risposta che si sentì dare.
Non si erano ancora alzati dalle loro sedie i due cugini, che Pepè fece irruzione nella cappelletta, rovesciando su Silvestre lo sconforto per la grave perdita della paglietta.
Qualcosa bisognava fare. La paglietta andava recuperata. A tutti i costi andava recuperata.
In un primo momento, Monsignore mostrò infastidirsi, ma poi pensó che in fondo Pepè era un semplice, un buono che gli era veramente devoto; per cui, sfoderando il più indulgente dei suoi sorrisi, lo rassicurò “ stasera, ne parleremo stasera con il brigadiere Gallodoro”.
La sera, infatti, il cugino Paolo avrebbe offerto un ricevimento in onore dei Lo Sicco – Tramontana, al quale erano invitati i maggiorenti della cittadina.
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Erano le venti e qualche minuto, la recita del rosario era da poco finita e la saletta del pranzo posta al piano terra del Palazzo, riservata a Paolo Lammiru per il ricevimento, era già apparecchiata per ricevere gli ospiti d’onore e alcuni tra i villeggianti, con i quali “lo sposino” intratteneva da tempo cordiali rapporti in virtù dell’abitudine, che da anni quelli avevano di trascorrere l’estate a Letojanni.
Il ricevimento, durante il quale sarebbe stata ufficializzata la data delle nozze ( che praticamente tutti conoscevano), fu molto semplice; ma di sostanza. Tutto a base di pesce. Tranne che per qualcuno, a cui il pesce non andava giù. Per due o tre persone in cucina avevano avuto il loro bel da fare per preparare , all’ultimo minuto, un dignitoso menù a base di carne.
Ma tant’è, ci riuscirono e tutti mostrarono gradire.
Eccome se gradivano!
Tra i maggiorenti del paese (sindaco, parroco, frate cappuccino, brigadiere, carabiniere e medico) e tra gli invitati una si infiltrò, che tutti chiamavano la signora Adalgisa, che sia Monsignore Arciprete che Agatina avevano notato, sembrandogli di averla qualche volta incontrata.
“ Ma dove? Dove l’avremo mai incontrata? “ si maciddiavanu,si lambiccavano il cervello. “ Magari, non l’abbiamo mai vista…”, convennero alla fine i due rassegnati, “ oppure, somiglia a qualcuno di nostra conoscenza, di cui ci sfugge il nome; si sa che nel mondo ci sono sette persone che si somigliano. Tutte uguali!”
La signora Adalgisa, un’attempata giunonica donna sulla sessantina, da qualche anno trascorreva il mese di luglio a Palazzo Durante con il suo cane (un bastardo marrone alto due metri, ubbidiente agli umori della padrona e con la coda sempre in mezzo alle gambe), che era la disperazione del personale, in particolare di Marco, che doveva allontanarlo di continuo dal buffet della prima colazione.
Una prima colazione molto abbondante faceva la signora, dato che il suo soggiorno non comprendeva il pranzo e neppure la cena.
Quello che non riusciva ad ingurgitare lo faceva scivolare in una capiente borsa, che si affrettava a svuotare in camera, per poi ritornare in sala, continuare a mangiare e fare ancora provviste.
Marco vedeva e taceva. Aveva un religioso rispetto degli ospiti; ma il cane (povera e infelice bestia)…non poteva consentire che il cane poggiasse timidamente il muso sulla candida tovaglia, nel tentativo di arraffare qualche biscotto.
Inoltre, gli altri ospiti non facevano mistero di infastidirsi; per cui, faceva un po’ come da sentinella, per consigliare alla donna (come dire?) una maggiore attenzione.
Ma quella, niente! Imperturbabile, continuava come se il fatto non fosse il suo.
Si era presentata al ricevimento, indesiderata ospite, e si era sistemata al tavolo del giovane carabiniere, tuffandosi nel cibo e parlando solo per commentarne la bontà o per storcere il naso, quasi non fosse di suo gradimento.
La serata scorreva piacevolmente, costellata di vecchi ricordi leonfortesi e pudici brindisi alla salute dei prossimi sposi.
Al lungo tavolo d’onore, oltre ai fidanzati Paolo e Pinucca, la signora Ninetta e i Lo Sicco Tramontana, sedevano gli invitati di riguardo.
Accanto a Monsignore avevano preso posto il medico e il brigadiere.
Del povero morto, neppure un cenno. Solo Pepè non riusciva a toglierselo dagli occhi; non tanto per un fatto di pietà cristiana, quanto perché il poveretto era diventato l’involontario custode della sua paglietta.
Non si potrebbero contare le volte in cui si alzava dal suo tavolo; si asciugava il sudore con il tovagliolo e con una scusa si avvicinava all’Arciprete, per ricordargli a bassa voce di vedere se si poteva fare qualcosa “per quel fatto”.
Le visite di Pepè al tavolo di Silvestre furono tanto frequenti, insistenti e fastidiose, che il povero prete, contravvenendo ad ogni regola di buon garbo, dovette sfoderare uno dei suoi più mielosi sorrisi e, rivolgendosi ai commensali che gli stavano accanto, “ domattina, prima del seppellimento della povera salma, vorrei darle un’altra benedizione. Poi celebrerò per lui le Messe Gregoriane” quindi, continuando con un rassegnato sospiro “..gratis, visto che per lui non può pensarci nessuno…non è giusto che se ne vada come un cane”.
Sia il medico che il brigadiere, sempre con la bocca semipiena e pronta ad un altro boccone, gli assicuravano che certo che si poteva fare. Domattina alle otto si sarebbero potuti incontrare al cimitero.
“ Non si può fare alle nove?”, obiettò timidamente il prete, “ perché alle otto celebrerò la Messa nella cappelletta.”
“ Certo che si. Ci vediamo domani alle nove al Cimitero; ci sarà anche il giovane, che ha riconosciuto il corpo, del quale sappiamo solo che si chiama Giovanni Diotallevi e che vive a Castelmola. Dovrà pure darci altre informazioni utili”, concluse Gallodoro rituffandosi nel cibo, mentre il medico non aveva smesso un attimo di mangiare e bere, chiuso in assoluto silenzio, come volesse dire, “ qui tacet, consentiri videtur…. ,chi tace acconsente”.
Alle otto del mattino in punto, Monsignore Arciprete Silvestre Lo Sicco Tramontana era già sull’altare della cappella del palazzo, per celebrare la Santa Messa.
La cappella era piena di gente, in maggioranza donne, c’era anche una suora, Franceschina, che faceva un po’ da padrona di casa e che aveva intonato, prima ancora che l’Officiante entrasse, il canto d’ingresso.
Il primo banco era stato riservato; nel mezzo si era sistemata Pinuccia (la promessa sposa, che pur si trovava ancora in peccato mortale), da un lato la mamma Ninetta e dall’altro la signora Sarina.
“ Ma quantu è bedda Pinuccia”, non poté fare a meno di pensare Silvestre, “ragiuni avi ‘u cucinu Paulu”.
Pinuccia, effettivamente, era davvero bella. Prosperosa quel tanto che basta per far perdere la testa agli uomini, con i capelli neri a treccia ed un paio d’occhi che tirava l’anima dai pantaloni…” va’ dicimuni sta’ Missa…meglio che mi prepari a celebrare la Messa…”, si disse segnandosi frettolosamente come per schiacciare un impudico pensiero.
Mentre puliva il calice con ogni accuratezza, però, altre considerazioni e di altro genere gli si affollarono, osservando i fedeli, che prima ancora dello “ ite missa est “ si erano frettolosamente alzati per cominciare a sfollare.
“ Ma guardali tu. Guarda con quanta fretta vanno via; come se scappassero. Mangiano il Signore e neppure un minuto per ringraziarLo. Come se andassero al bar a prendere un caffè; solo che al bar pagano. Qui neppure grazie. Guarda come sono tra loro, poi. Manco in faccia si guardano. Si trattano come se fossero perfetti estranei (se non nemici) e non figli dello stesso Padre e della stessa Madre”, pensava improvvisamente intristito. “ Non si salutano, non si conoscono e non si vogliono conoscere. Ciascuno pensa ai fatti suoi; solo quando vengono a confessarsi pensano a quelli degli altri…ai peccati degli altri….meglio i massoni come il farmacista Mazza. Almeno quelli, anche se scomunicati, tra loro si rispettano, si sostengono….si amano.”
Quello che più di ogni altro non vedeva l’ora che finisse la Messa era tuttavia Pepè, che per le nobili ragioni che conosciamo, non staccava gli occhi dal prete, come per implorarlo che si sbrigasse.
Una fugace prima colazione, quindi, e tutti e due furono davanti al cancello del cimitero, dove oltre al custode li aspettavano il medico ed i carabinieri.
Il brigadiere Gallodoro aveva una sete che sembrava un cammello di quanta acqua aveva bevuto e non la finiva di bere, ché un caldo come quello mai si era visto a Letojanni e la notte non aveva potuto dormire, sbuffava, con tutto che aveva lasciato le imposte aperte. Macché! Sudava che le lenzuola sembravano bagnate e non riusciva a trovare nessuna posizione comoda; in più aveva le ossa rotte, a causa dell’umidità, e gli si era infiammato il nervo sciatico.
“ Ma chi vi cuntu i me’ guai….ché sto a raccontarvi i miei dolori…”, si scusava, “ speriamo che quel ragazzo venga presto, così ci sbrighiamo e possiamo fare ritorno alle nostre case”.
Proprio mentre stava per bere un sorso d’acqua fresca dal “bummulu di Lentini”, la brocca di terracotta che il giovane polentone era costretto a portarsi dietro per placare la sete del suo superiore, da lontano apparve il giovane, che aveva riconosciuto il corpo per quello di Giovanni Prezzavento.
Quasi senza salutarlo, la brigata si poté quindi spostare, all’ombra dell’ufficetto del custode, che era intanto scappato a svolgere alcune delle sue macabre funzioni presso una tomba. “ Finalmente…..”, sospirò il militare.
“ Tu sei?”
“ Giovanni Diotallevi”, scandì smaccatamente il ragazzo.
“ Che rapporti avevi con il morto?”
“ Era mio padrino, venivo a trovarlo almeno una volta al mese”.
“Scrivi tutto per bene”, fece allora Gallodoro al Polentone. “ Hai scritto? Bravo , continua a scrivere…”, seguitò.
Quindi rivolto ancora al ragazzo, “paternità e maternità, ragazzo”.
“ Non pervenute”, rispose con amaro sarcasmo il ragazzo.
“Come non pervenute?” scattò indispettito il brigadiere. “ Sono un trovatello; sono stato trovato e cresciuto dalle suore del Convento di Caltagirone”, fu la risposta secca, che si sentì dare.
“ Saprai, almeno, dove e quando sei nato?”
“Immagino di saperlo; quando le suore mi hanno preso, mi hanno trovato una medaglietta, su cui era inciso il mio nome, Giovanni, e il luogo e la data di nascita, Caltagirone. Il cognome Diotallevi me lo diedero loro. Originali, vero?”
A sentire il luogo e la data di nascita del ragazzo, Silvestre che intanto si era poggiato su uno scaffale sgangherato, ricolmo di polverosi faldoni, ebbe quasi un sobbalzo; per cui, pallido in viso, si appoggiò al malfermo mobile, che in precario equilibrio lasciò rumorosamente cadere tutte quelle carpette, che chissà da quanto tempo erano lì.
Quindi, perse i sensi.
“ Il caldo, sono gli scherzi del caldo…” sentì dire al medico, quando li riprese. “ Sbrighiamoci, che ce ne torniamo a casa”.
Il caldo aveva fatto, certamente la sua parte. Ma il fatto è che il luogo e la data di nascita del ragazzo coincidevano in maniera impressionante con quelli di suo figlioccio Tommaso.
Quando Agatina Rappè, mamma del giovane Tommaso, rimase incinta, per proteggerla dai pettegolezzi della gente, prima ancora che si scorgessero evidenti i segni della gravidanza, Monsignore aveva consigliato che andasse prudentemente a rifugiarsi a Caltagirone dalle suore, dove poi avrebbe partorito.
Quelle buone monache avevano come principale missione quella di accogliere donne, che gestivano con imbarazzo la loro gravidanza; le avrebbero seguite e si sarebbero prese cura dei loro bambini sin dalla nascita, qualora non avessero inteso riconoscerli.
Ora, mentre Tommaso aveva subito potuto godere del calore di una famiglia, il povero Giovanni (anche lui nato a Caltagirone nello stesso giorno del figlioccio di Silvestre) rimase affidato alla custodia di quelle religiose, poiché partorito da “donna che non intende essere mentovata”.
Questa costatazione, che evidentemente non poteva condividere in quel momento con nessuno, mise in subbuglio il povero prete; tanto che tremava come una foglia e non riuscì (lui schifiusu com’era) neppure a rifiutare di bere allo stesso bummulu,dove aveva appuzzatu, da cui aveva bevuto il brigadiere Gallodoro.
A causa delle ambasce, in cui era precipitato, non aveva smesso un momento di osservare quel ragazzo; tanto che quello, sentendosi così pressantemente ed inopportunamente fissato, chiese di potere andare per i fatti suoi, ché aveva tanto da fare e ché poi, se avessero avuto ancora bisogno di lui, avrebbero saputo come e dove trovarlo.
Monsignore lo accompagnò con lo sguardo sino a quando poté; ignaro che un altro brutto colpo, proprio quando sembrava che si fosse rasserenato, il destino si apprestava a sferrargli.
I locali dell’obitorio erano già maleodoranti… si aggiunga che con quel caldo la cadaverina, che si sprigionava da quel povero corpo, rendeva l’aria insopportabile e tutti avevano portato il fazzoletto al naso; di nuovo, il poveretto stava per sentirsi male, tanto da perdere il suo abituale autocontrollo e reagire quasi violentemente all’incauto tentativo messo in essere da Pepè per aiutarlo.
“ Se tu, per il recupero di quella maledetta paglietta, nun m’avissi ruttu i fratelli Bocconi”, gli sibilò acido, “ io adesso non mi troverei ‘nti sti cientu missi…”
Le messe, però, per lui non dovevano fermarsi a cento; erano destinate a diventare cento e una.
Quando la bara fu scoperchiata, Pepè con un colpo di mano afferrò la paglietta e se la mise in testa, dimentico di porgere l’aspersorio al prete, che si portò il fazzoletto al naso e cominciava ad aspergere la salma, quando si accorse che dalla camicia affiorava una vistosa macchia di sangue, a cui nessuno il giorno prima (nella fretta di concludere al più presto le pratiche di legge e fuggire dalla calura) aveva fatto caso.
Non ebbe neppure il tempo di svenire, che anche il brigadiere se ne avvide e segnalò il fatto al medico, che non poté fare a meno di chiedere al carabiniere polentone che provvedesse a girare il corpo di quel poveretto, perché potesse meglio esaminarlo.
Il ragazzo si raccomandò a tutti i santi per non offrire un indecoroso spettacolo di debolezza, si legò un fazzoletto come a bavaglio e (dopo avere rivolto un implorante sguardo al superiore, che con un altro sguardo gli imponeva di “ fare l’uomo”) ubbidì, “aduso ad obbedir tacendo”.
Giovanni Prezzavento non era morto a causa dell’assalto delle api, né per gli effetti della calura; ma per un colpo, che gli era stato inferto con un’agile arma da taglio alla scapola destra. In più, tutto denunziava che non fosse stato ucciso lì dove era stato ritrovato; sembrava che fosse stato trascinato per almeno un centinaio di metri.
Avevano così conferma anche gli immediati dubbi che Monsignore si era posto per il fatto che il volto dell’uomo non presentava alcun gonfiore provocato dalle punture delle vespe, che (di certo) dopo morto lo avevano assalito.
Non rimaneva, adesso, che indagare, per fare piena luce sulle modalità del delitto, sul colpevole e sul movente, che aveva scatenato il delitto.
Convennero che, almeno per il momento, non trapelasse nessuna notizia sull’accaduto; alle tre si sarebbero visti tutti in caserma.
“ Alle tre?” obiettò Silvestre, “ all’ uocchiu do’ suli.., proprio quando il sole picchia?”
“ Va bene”, concesse Gallodoro, “ alle cinque…puntuali e mi raccomando…pipa”, concluse portandosi l’indice della mano destra al naso, per raccomandare il silenzio.
“ Pipa “ risposero tutti, compiendo a loro volta il gesto dell’indice al naso, e si separarono.
Rimasto solo con Pepè, al braccio del quale si era aggrappato a peso morto Monsignore, sapendo che quello era di stomicu lieggiu, di stomaco leggero, e difficilmente riusciva a custodire un segreto, gli diede una stretta, accompagnandola con un “sssssilenzio” ed un ulteriore “ pipa, mi raccomando”.
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Avere raccomandato il silenzio a Pepè era come lasciare la pecora alla custodia del lupo.
Appena a palazzo, si scolò una lancedda (brocca) di acqua fresca e corse in camera alla ricerca di Serafina alla quale, per darsi il tono dell’uomo, avrebbe detto di custodire un segreto…ma un segreto… ma che pazientasse e sarebbe stata la prima a saperlo.
Tuppuliò, bussò e ribussò ripetutamente alla porta e sempre con maggiore insistenza, ma la donna non dava cenno di esserci.
Solo all’ennesimo tentativo, seguito da un’imprecazione, si sentì rispondere con un filo di voce, “ Pepè, gioia miu, nun fari scrusciu, ca ora ora m’avìa durmutu… non fare rumore, perché poprio adesso mi ero addormentata; aspettami jusu, giù.
Si sentì un verme, per avere così rudemente disturbato il riposo di quell’angelo ( che stava innocentemente intessendo il suo di segreto… con Tommaso) e si precipitò a piano terra, ordinando un buon caffè; che gli ci voleva proprio.
Dal canto suo, Monsignore non poteva certamente tenerselo nello stomaco quel cutugnu (peso) ed accese la sua di “pipa”, parlandone con Agatina, con la quale ben altri segreti avevano creato, custodito e condiviso.
Al racconto di quanto era successo, la poveretta entrò in costernazione, vuoi per il fatto delittuoso in sé…vuoi per la strana coincidenza del luogo e della data di nascita del figlio Tommaso e di quel Giovanni Diotallevi.
Mentre Silvestre (che Dio sa quanto lui avrebbe avuto bisogno di essere rincuorato) cercava di rincuorarla davanti una granita al tavolo della gelateria Friscu, la signora Adalgisa andò ad occupare, al solito senza essere invitata, la terza sedia, ordinando al suo cane, che aveva già dato una calorosa leccata nelle mani di Monsignore, di accucciarsi ai suoi piedi.
Non avevano scambiato che qualche parola di circostanza che l’animale, per dimostrare quanto gradiva quella compagnia, allungò il muso e si trascinò la brioscia, a cui il prete era appena riuscito a staccare il tuppu.
Per i due era troppo; si alzarono e si allontanarono, tentando di non contravvenire alle più elementari regole di galateo.
“ Ma dove diavolo”, si segnarono entrambi, “ l’abbiamo vista!? ”
Quel pomeriggio, nessuno era riuscito a poggiare le spalle sul letto. Tanto sarebbe valso tirarselo subito il dente e incontrarsi alle tre.
Ad ogni buon conto, alle cinque in punto furono tutti presenti in caserma, compreso Giovanni Diotallevvi, chiamato in fretta e furia, per maggiori informazioni.
Il Brigadiere aveva ritenuto opportuno fare presenziare anche il Parroco ed il Cappuccino, che lo coadiuvava, ma che non si sapeva per quale strano motivo la mattina aveva lasciato la canonica senza nessuna spiegazione e senza neppure salutare nessuno.
Nella maniera più informale, di cui era capace, il Carabiniere si mise a fare le prime domande come se le rivolgesse a se stesso.
“ Da quanto tempo Prezzavento viveva a Letojanni? Quali persone frequentava? Che abitudini aveva? Chi lo aveva visto per ultimo?”
Ne venne fuori che nessuno sapeva da quanto tempo il poveretto vivesse a Letojanni, ma che prima di prendere stabilmente la sua residenza in paese era vissuto per molti anni a Caltagirone, dove conduceva una vita molto riservata e schiva, (come d’altronde in paese), che frequentava la chiesa del convento delle monache, che si erano occupate del Diotallevi e che quelle in considerazione della sua vita morigerata gli avevano chiesto di tenere a battesimo il bambino.
Con il Diotallevi aveva sempre intrattenuto ottimi rapporti; tanto che non erano rare la volte, in cui il giovane ( che non sembrava eccessivamente addolorato) si sentiva oppresso dalle sue premure quasi paterne.
Tutto lì. In più, aggiunse il Parroco, era solito confessarsi una volta la settimana, il Sabato, con il Cappuccino, che era andato via come fuggendo, abbandonando la casa canonica.
Non sembrava emergessero elementi utili alla risoluzione del caso. Qualche sospetto, tuttavia, per ovvie ragioni cominciava ad addensarsi sul Diotallevi e sul Frate Cappuccino.
“ Perché sarebbe fuggito?” si chiedevano. “ Proprio il frate, proprio lui, era stato l’ultimo a vederlo. Il frate e quella strana Signora con il cane, che alloggiava a Palazzo Durante, con la quale aveva scambiato qualche parola e che, anche lei, era venuta a confessarsi quel Sabato”.
Si brancolava praticamente nel buio e, come succede in questi casi, cominciò a farsi strada l’ipotesi che il malcapitato fosse stato ucciso da un balordo incontrato per caso.
Si sarebbero, comunque, presto rivisti; se non altro…per un caffè.
A Palazzo Durante, Monsignore continuò ad essere “maciddiatu”, ossessionato dal fatto della coincidenza del luogo e della data di nascita dei due ragazzi.
Ne parlò ad Agatina e di comune accordo decisero di inviare un telegramma al Padre Guardiano dei Cappuccini di Caltagirone, per chiedere alle monache notizie utili sulla nascita del giovane Giovanni Diotallevi.
La mattina seguente, dopo la Messa, Silvestre si fece accompagnare all’ufficio postale di Taormina, da dove inviò il suo telegramma.
Le giornate scorrevano serene nei preparativi delle imminenti nozze. I vestiti di tutti erano già stati rinfrescati ed opportunamente stirati; solo la signora Sarina aveva qualche inquietudine, perché non lo voleva indossare proprio il cappellino per la cerimonia. Si sentiva un “pappaiaddu”, un pappagallo…
La brezza del mare conciliava le dolci conversazioni del tardo pomeriggio e il cugino Paolo, per fare cosa gradita a Silvestre, aveva invitato gli amici che, ormai, il Monsignore si era fatto.
Nella serenità generale, l’unica ad essere irrequieta era la signora Adalgisa, ché il suo cane per la prima volta le si era ribellato e dalla mattina non aveva fatto ritorno.
Per consolarsi, mangiava un gelato dopo l’altro; tanto erano offerti dalla casa.
In un attimo di silenzio, tuttavia, il cane si presentò scodinzolando festosamente e depositando ai piedi della padrona un qualcosa che fece rumore e che attirò l’attenzione di Gallodoro, che per pura cavalleria corse a raccogliere, rimanendo basito.
Si trattava di un bisturi insanguinato…., che il carabiniere non tardò a porgere alla donna, osservandone le reazioni.
Di un pallore cadaverico, la donna non ebbe la forza di parlare e si abbandonò priva di sensi sulla seggiola, mentre gli altri si lasciavano andare ad un mormorio indistinto.
Come se non bastasse, quasi in contemporanea arrivò il fattorino delle poste, che consegnò all’Arciprete il telegramma di risposta al suo. Silvestre chiamò da parte Agatina e le fece leggere il testo, mentre entrambi sbiancavano in viso.
“ La data di nascita di Tommaso e di Giovanni Diotallevi erano identiche e i due bambini erano nati alla distanza di poche ore l’uno dall’altro. La mamma di Giovanni era… Adalgisa Messineo. Nubile.”
Ecco dove l’avevano vista.
Prima che la situazione potesse precipitare, Silvestre si appartò con il Brigadiere informandolo che praticamente da notizie certe aveva appreso che Adalgisa era la mamma di Giovanni, figlioccio del Prezzavento.
Messa alle strette la donna, che per il sollievo del prete e di Agatina non si ricordava di loro, dovette ammettere che il Diotallevi era suo figlio, nato da una relazione con il Prezzavento, con il quale non aveva smesso di mantenere rapporti, seppure burrascosi, per il fatto che l’uomo già da tempo avrebbe voluto svelare al ragazzo la verità sulla sua nascita.
Lei non poteva consentirlo; ne sarebbe andata di mezzo la sua onorabilità e, poiché quello non voleva sentire ragioni e minacciava di rivelarla lui da solo quella verità, lei aveva deciso di risolverla a modo suo….
Pur lacerato da quella confessione, il povero Giovanni inutilmente cercò lo sguardo della mamma, nella segreta speranza di un abbraccio, di una carezza.
Ma, poiché quella le sue carezze le riservava al cane, singhiozzando andò a cercare rifugio tra le braccia della signora Sarina, che lo accolse nel suo grembo, proprio come si fa con un figlio.
Mentre il carabiniere polentone l’ammanettava, Adalgisa non ebbe occhi e carezze che per il suo cane, che affidò alle cure di Pepè, che finalmente avrebbe avuto qualcuno fedele da carezzare.
Da quel momento, i due non si sarebbero mai più separati.