di Lucio Sergio Catilina

 

Marzio, il solo che avrebbe potuto farmi gioire delle cose più semplici e vere delle vita, figlio mio e di Graziana, morì troppo presto ed anche lì non tardarono le insinuazioni, secondo cui fui proprio io a favorirne la morte, perché ostacolava le mie nuove nozze con la bellissima Aurelia Orestilia.

Addirittura, Sallustio si spinse a dire che sia stato proprio io ad ucciderlo di mia mano Marzio.

Ma lui odiava i nobili e me in particolare; mi accusava di non avere saputo custodire le virtù dei Patres, coltivando anzi un carattere perverso ed avido.

Pazienza. Il poveretto non riuscì mai a superare quello che voi chiamate complesso d’inferiorità, del quale a causa delle sue borghesucce origini era afflitto.

Ma basta parlare di lui.

Il fatto è che non ho mai potuto giocare siccome mi sarebbe piaciuto con un nipotino o con una nipotina ( non vorrei essere tacciato di essere anche sessista), la fisicità del quale, o della quale, avrebbe potuto ricondurmi dolcemente ai tratti fisici, somatici e caratteriali miei e dei miei avi.

Essendo, però, nelle condizioni di poterlo fare, mi stanzio sempre più spesso in casa dell’amico, che voi oramai ben conoscete, e riesco a cogliere di lui persino il battito del cuore, che lui ( frastornato com’è dalla quotidiana materialità) trascura di ascoltare.

Sento come aumenti l’intensità di quel battito, quando alla porta di casa bussa una delle figlie, “ benedette ragazze, ma perché mai si ostineranno a bussare, se le chiavi di casa ce le hanno?”

Il tempo di alzarsi di tutta fretta, così come può fare, di rassettarsi un po’ e correre ad aprire, mentre quel cuore scoppia a sentire che ci sono anche i nipoti.

I due più grandicelli, Viola e Liborio, irrompono con tutta la forza dell’entusiasmo dei loro teneri anni. Ciascuno ha qualcosa da dire, da raccontare; qualcosa di più importante di quello che l’altro sta per dire o raccontare.

La piccola, Elena Sofia, strilla le sue ragioni, come a volere ricordare che in quella casa, almeno per ora, la più importante è lei.

Lei che non cammina ancora, che gattona tra mille pericoli, e che abbisogna di essere continuamente custodita ed incoraggiata.

La stanno pulendo sul tavolo della cucina per l’occorrenza sgombrato, sotto l’attenta visione dei due cuginetti. Si scopre, quindi, ad osservare attentamente Viola, già grandicella, e si sofferma a guardarle una mano.

Gliela carpisce, superando l’involontaria resistenza della bambina, e la esamina minuziosamente, dito dopo dito sino a soffermarsi sul mignolo leggermente arcuato.

Arcuato come quello della nonna Tanina.. ed il pensiero vola; la vede la nonna intenta a lavorare la tomaia alla macchina da cucire e rivede quel dito, che si evidenzia dalla mano che stira il pellame.

La bacia e ribacia quella mano quasi fosse una cosa sacra. Quasi baciasse la mano della nonna e la ringraziasse perbtutte le sue notti insonni.

Gli verrebbe da piangere; non può. Lo sguardo allora corre su Liborio, sulla sua testolina bionda, sul bernoccolo congenito alla sinistra della calotta…proprio come il suo.

Sorride. Neppure lui sa se di un sorriso malinconicamente amaro o di una gioia tanto grande da non potere essere confessata.

La bimba è bella e pulita, “ papà, vuoi tenerla in braccio?” Eccome se vorrebbe!

Ma deve fare i conti con quelle maledette vertigini, “vado a letto, portatemela lì”.

Gli sbatto sotto gli occhi il terzo Canto, costringendolo quasi a leggerne i versi.

Leggi bene gli sussurro all’orecchio e lui legge la risposta di Piccarda a Dante, il quale le aveva chiesto se lei e le anime di quelli che si trovavano con lei fossero felici di trovarsi in quel luogo non proprio accanto a Dio.

“Frate, la nostra volontà quïeta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.”

Capisce subito l’antifona…e, sazio di quell’amore, può adesso riposare.