di Josè Trovato

Leonforte. Ancora un giudice chiamato a pronunciarsi. Ancora un’udienza. E ancora un’archiviazione, l’ennesima. Ancora storie infondate, episodi insignificanti o fantasiosi, come l’accusa di aver “gonfiato le guance o le labbra”, di aver “soffiato con le guance gonfie” o di aver alzato “il giubbotto per mostrare la pistola”. Nel frattempo però lui, un assistente capo del Commissariato di Leonforte, è costretto a difendersi e a doversi presentare in Tribunale – cosa più snervante per lui, un uomo delle istituzioni che ogni giorno lotta contro il crimine – vestendo i panni dell’imputato, nelle udienze di opposizione alle archiviazioni, poi puntualmente respinte.
Inizia sempre più ad assumere i contorni della persecuzione, però, questa vicenda, a seguito delle denunce presentate da familiari o amici di due giovani condannati in via definitiva in un processo antimafia. I due non erano sono stati appartenenti o riconducibili a Cosa Nostra o altre organizzazioni criminali, ma, per reati piuttosto gravi, rientrarono comunque nella stessa inchiesta, poi divisa in due tronconi. Sta di fatto che quel poliziotto, evidentemente, ai loro occhi ha una colpa imperdonabile: essere loro “compaesano”.
Fare il poliziotto e vivere con la famiglia in un paese di provincia, nella profonda Sicilia, insomma, per alcuni, negli ambienti del crimine comune, può essere visto come una colpa, specie se sei un investigatore in prima linea, che conduce inchieste sulla mafia e sui gruppi protagonisti di rapine, furti, estorsioni e minacce nello stesso piccolo centro in cui risiedi. In questi casi, l’aria attorno a te, può diventare irrespirabile e puoi diventare il bersaglio di comportamenti intimidatori, sguardi in cagnesco, “sputi” nel cofano della macchina e una raffica di querele infondate, per accuse a dir poco “particolari”.
Inoltre, va sottolineato, presto si aprirà un’udienza a parti invertite, perché stavolta è stato proprio lui a denunciare quelle persone, che avrebbero tentato di intimidirlo minacciando sua moglie. In questo caso è lui la persona offesa e i suoi denuncianti sono accusati di vari reati, tra cui minacce e calunnia. È difeso dall’avvocato Angela Maenza. “C’è già un’udienza fissata e ci costituiremo parte civile – afferma il legale -. Riteniamo che la misura sia colma: adesso il Gip Ravelli, con un provvedimento magistrale, ha dichiarato inammissibile la nuova opposizione all’archiviazione. Il mio cliente è una persona pulita, senza macchie, che ha sempre vissuto lavorando e collaborando a importanti inchieste antimafia. Dispiace l’impressione che si voglia provare a screditare un investigatore che allo stesso tempo, in servizio, ha ricevuto lodi, encomi ed encomi solenni, proprio perché integerrimo, scrupoloso e al di sopra di ogni sospetto. Un tentativo di ‘mascariamento’ nei confronti di un servitore dello Stato che vuole ingenerare nella gente confusione tra bene e male. Ribadiamo un concetto già espresso in passato – conclude l’avvocato Maenza -: il male è chi cerca di sottomettere tutto e tutti con metodi criminali, il bene chi combatte il crimine. E desideriamo altresì fare un plauso alla magistratura requirente di Enna, diretta dal procuratore Massimo Palmeri: le archiviazioni sono arrivate tutte al termine di indagini puntigliose, che hanno appurato il comportamento impeccabile dell’agente”.