di Salvo La Porta

Maria Grazia Breda in un articolo dal titolo “ Diversabilità e diversabile: una terminologia che discrimina”, pubblicato sul numero 146 dell’Aprile/Giugno 2004 di “ Prospettive assistenziali”, boccia senza giri di parole l’uso dei termini
“diversabilità” e “diversabile”.
“Vi sono migliaia di persone che, a causa della gravità delle loro menomazioni, sono del tutto incapaci di svolgere attività anche elementari, come vestirsi, assumere autonomamente cibi e bevande….. occorre tener conto che le abilità messe in atto dai soggetti con handicap sono le stesse e identiche abilità espresse dalle persone cosiddette normali”.

Seppure nella modestia dei miei studi, mi permetto di esprimere la mia adesione totale alle sue argomentazioni, volte a bollare quella che per me è una triste e pietosa finzione, che tende ipocritamente ad addolcire i termini “ disabilità” ed “handicap”, sino a tentare di farli scomparire dal vocabolario pedagogico e didattico, con grave danno e pregiudizio per il sereno e proficuo svolgimento dell’iter educativo e per la quotidianità delle persone obiettivamente svantaggiate.

Confesso di essere un inguaribile ammiratore di Ugo Tognazzi e dei suoi film; in particolare, guardando e riguardando la trilogia di “ Amici miei”, mi soffermo spesso sulla parte del Conte Mascetti Tognazzi ( nel quale mi piace identificarmi), colpito da un ictus, che lo costringe a vivere su una sedia a rotelle in balia della moglie e della figlia.
Finalmente, in suo soccorso arrivano gli amici, con i quali si sfoga, lamentando il suo stato di “non trombante” e, poiché io mi trovo nelle condizioni prossime a quello stato, che è un handicap obiettivo, mi provo ad immaginarmene la diversabilità.

Per quanti sforzi possa fare, non riesco a trovare alcuna abilità diversa a quella.

In verità, solo una mi si affaccia ripetutamente alla mente ed il cui esercizio, se non mi inorridisce, mi infastidisce notevolmente.
Lo stesso fastidio che provo ogni qual volta che, a causa del mio malfermo incedere e delle mie rughe, qualche sprovveduto, nel vano tentativo di blandirmi, con un sorriso mezzo ebete, fuoriuscito da una bocca melensa, mi infligge, sussurrandomi che sono diversamente giovane.

Ma che diversamente giovane? Io sono vecchio; un vecchio malfermo, acciaccato e rugoso, che ha vissuto e vive la sua vita cercando di fare il meno male possibile e sforzandosi di compiere appena un pizzico di bene.

Sono un vecchio, che ancora riesce a stupirsi, ad illudersi che esistano i valori della famiglia, dell’amore, dell’amicizia, della solidarietà, della ricerca del bene comune; sono un vecchio che non invidia i giovani, che non è geloso del loro vigore fisico, della loro bellezza, della freschezza dei loro anni, dei loro amori.

Sempre pronto ad incoraggiarli, a spronarli senza sgambettarli, a redarguirli, a gioire per i loro successi; pronto a sostenerli nella prova della frustrazione e dell’insuccesso.

Sono un vecchio, che non vanta, ma subisce una diversa abilità, costretto ad appoggiarsi ad un bastone, del quale volentieri farebbe a meno.
Non un diversamente giovane; ma un uomo che, in barba ai suoi anni, riesce a respirare la dolce primaverile fragranza dell’entusiasmo, lo stupore della vita e la divinità della giovinezza. Altra cosa della fredda, sterile, infeconda anagrafica gioventù, che inesorabilmente sfiorisce ed appassisce con gli anni.