La locandina

di Antonio Ortoleva

C’è il barbiere combattente e c’è il generale dell’aeronautica, il sacerdote di Barrafranca, morto al ritorno dal lager tedesco, e il giovane maniscalco ucciso per non aver tradito i compagni, l’avvocato cassazionista pietrino e innumerevoli contadini analfabeti, il maestro armerino trucidato a piazzale Loreto e il ragazzo di Leonforte che, già ferito, copre la ritirata dei compagni sino alla morte.  Luccica la figura del comandante Barbato, quel Pompeo Colajanni, ufficiale di cavalleria di famiglia ennese, che guida la conquista di Torino.

Buca le nebbie del passato l’esercito dei combattenti ennesi per la libertà dal nazifascismo grazie alla preziosa ricostruzione storica di Renzo Pintus contenuta nel libro “La Memoria ritrovata. Storie di partigiani ennesi 1943-45”, appena stampato dall’editore ennese Maurizio Vetri. Nato a Carbonia in Sardegna, Pintus bambino con la famiglia si trasferisce a Enna dove ha sempre vissuto e lavorato come professore di storia e filosofia nei licei e operatore in attività sociali, nonché presidente provinciale dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani.

Erano quasi 500, 457 al momento, erano giovani e forti ed alcuni sono morti, 54 i caduti accertati, provenienti dai venti Comuni ennesi e persino, e non pochi, dalle frazioni. Dopo quasi 80 anni dalla fine della guerra mondiale, è questo il primo elenco ragionato, diviso per Comuni e con brevi biografie, dei partigiani ennesi che presero parte con onore alla Resistenza e alla nascita della democrazia. Una lunga lista non ancora del tutto esaurita.

“A dire il vero – spiega Renzo Pintus – non me ne aspettavo tanti, ma l’elenco dei 457 ennesi non finisce qui. C’era molto poco quando ho cominciato, notizie sparse e non sempre fondate, sicuramente ne mancano all’appello, il numero più coerente dovrebbe aggirarsi intorno alle 600 unità. Certo, a distanza di decenni, l’Archivio centrale dello Stato non ha ancora completato la pubblicazione di tutti i profili, nei magazzini restano 700 mila fascicoli inevasi, ci sono altre aree da esplorare”.

L’autore, il professore Renzo Pintus

Renzo Pintus, immaginiamo un lavoro di anni. Da quale esigenza sei partito?

“Dal bisogno di capire se anche noi siciliani siamo stati parte attiva nella lotta di Liberazione e se la memoria era stata sepolta e perché. La risposta è stata positiva e sorprendente, ogni giorno la lista si allungava, storie corredate da fatti, da notizie, da articoli dell’epoca, che ho ricercato con pazienza e dedizione. Il mio non è un “data base” anagrafico, è un insieme di biografie per capire cosa ha spinto una fetta della generazione di giovani del primo Novecento a fare una scelta di campo, con una maturazione più profonda sulla natura del fascismo, ideologia violenta che aveva conquistato il potere e condotto impreparati alla guerra trascinando milioni di giovani”.

Domani, giovedì 18 maggio, presenterai il tuo libro in anteprima a Enna e immagino che ti appresti a programmare un lungo tour in tante comunità dell’Ennese.

“Certamente, il valore della memoria rende più ricco un territorio, intendo presentarmi in ogni latitudine della nostra provincia e sono certo che emergeranno altri nomi, per questo invito sin d’ora i familiari o chi ha notizie certe in proposito a presentarsi. Verso i giovani, poi, è argomento di educazione civica. Il valore della memoria è importante e non è fine a se stesso, significa dare ai siciliani un senso storico di appartenenza a queste vicende nazionali. Noi siamo stati la prima terra liberata, la Sicilia è entrata 20 venti mesi prima nel dopoguerra e non ha maturato quella coscienza politica e sociale nella lotta di Liberazione”.

Cominciamo a svelare il profilo dei combattenti ennesi per la libertà. Chi erano, la loro storia, la loro estrazione sociale.

“Un gran numero contadini e minatori, zolfatari, piccoli artigiani, con bassa o nulla istruzione non oltre la quinta elementare. Tra il ceto medio, ho rintracciato studenti, avvocati, ingegneri, medici, persino un sacerdote. Significativa la presenza di già emigrati al Centro-Nord e di appartenenti alle forze armate e dell’ordine. Sette le donne. Li ritroviamo nei luoghi simbolo della Resistenza, dalla Fosse Ardeatine a piazzale Loreto, sino ai terrificanti campi di concentramento. Non pochi i comandanti, su tutti Pompeo Colajanni, il comandante Barbato, ufficiale nisseno con famiglia di radici ennesi sepolto nel nostro cimitero”.

Proviamo a raccontare il profilo di alcuni di loro, cominciando dal capoluogo.

“Enna ha due piccoli primati, il maggior numero di partigiani, 84, e di caduti, 8. E un terzo in negativo, la storia di un coraggioso e astuto combattente, non a caso chiamato Volpe in battaglia, alias il giovane Carmelo Adamo del quartiere Biddivirdi, che scampa al gelo delle steppe russe, alle prigioni dei tedeschi e poi dei fascisti e a numerosi combattimenti, ma non a un destino crudele che lo dà misteriosamente disperso per quanto si legge in una lettera successiva della moglie che chiederà un’indennità allo Stato.  O la medaglia d’oro a Pietro Giuseppe La Marca di Piazza Armerina, l’ingegnere matematico che compì da solo un’azione eroica disinnescando l’esplosivo piazzato dai tedeschi presso un polo della Marina militare e che avrebbe ucciso la popolazione nelle vicinanze. Di “Dante”, figlio di contadini con la quinta elementare, alias Rosario Ciotta di 21 anni, ho scoperto sulla tomba, nel cimitero Villadoro, un solo verso su un libro di marmo aperto che dice “meglio morire che tradire”. E si diede il nome del sommo poeta. E ancora, don Pietro Paternò, sacerdote e partigiano di Barrafranca, del quale non è rimasta memoria nel paese natìo, il quale svolse il suo ministero pastorale sull’Appennino emiliano. Arrestato, ammise di collaborare con gli insorti e fu deportato nel lager di Dachau. Liberato dagli americani, morì pochi mesi dopo il rientro perché prostrato nel fisico. La sua tomba sta al centro del cimitero del piccolo borgo di Pieve di Rivoschio”.

La tomba di Rosario Ciotta nel cimitero di Villadoro con la frase “Meglio morire che tradire”

Dunque, anche la storia di Enna, il più piccolo dei capoluoghi, grazie alla tua ricerca dimostra che la Resistenza fu vicenda nazionale con la partecipazione e il sacrificio di centinaia di migliaia di giovani provenienti dal Paese intero.

“Oltre ottomila siciliani vi presero parte, in Piemonte il secondo gruppo regionale. Non fu solo rivolta del Nord, anche l’Anpi ha chiarito che si trattò di partecipazione e non di un semplice contributo”.

Eppure, a fine guerra, il ritorno in Sicilia di tanti fu amaro e persino umiliante…

“Cinque settimane hanno liberato i siciliani dalla dittatura ma non del tutto dal fascismo. Nel resto d’Italia la guerra e la lotta di Liberazione hanno saldato un sentimento nazionale antifascista”.

Quindi, la Sicilia non si è ancora del tutto liberata…

“Sono convinto che il retaggio permase a lungo e ancora oggi se ne intravedono tracce, io partecipo verso i giovani nel costruire una consapevolezza storica. Al Nord l’antifascismo, in Sicilia l’indipendentismo, provocato dalle classi alte che temevano di perdere i loro privilegi. La lotta partigiana ha dato dignità al Paese, in Sicilia invece si afferma un’alleanza tra la mafia nascente e un pezzo rilevante delle classi dirigenti. Quel che accade in Sicilia non accade altrove, il separatismo guidato dai nobili e gestito militarmente da Salvatore Giuliano, una serie di stragi e di misteri, la guerra fredda nell’Isola era già cominciata. Il massacro di contadini e dei sindacalisti delle Leghe, la strage di Portella: il movimento doveva essere fermato anche con le bombe”.

I partigiani che tornano si trovano spiazzati, non pochi riprendono al via del Nord.

“Ecco un fatto esemplare che vale per tutti. A Gagliano ritorna a tarda sera il partigiano Salvatore Pirrone, più volte ferito. Amici e parenti organizzano la banda musicale in accoglienza. Ma il sindaco Cuva chiama i carabinieri per intimare alla banda di smettere di suonare per disturbo della quiete pubblica. Ancora oggi, scuole, piazze e vie, edifici pubblici ricordano poco o nulla la Resistenza e i suoi protagonisti, penso al viale a Enna bassa, l’unico a Enna. Ma abbiamo ricevuto proposte dalla Toponomastica e comincia ad esserci più attenzione verso quegli anni”.

Renzo Pintus, vorrei concludere la nostra conversazione con un passo di una lettera contenuta nel tuo libro e inviata a una contessa che lo aveva protetto. La testimonianza semplice e angelica del partigiano Antonio Spedale di Calascibetta, che si avvia al patibolo.

 “Gentilissima signora Contessa, Le comunico

da questa mattina alle ore 7 sono pronto per partire che mi debbono fucilare io sono innocente, e pure devo essere fucilato. La prego gentilmente quando tutto sarà finito la prego di scrivere alla mia casa e farle sapere tutto. […] Non avendo altro da dire le invio i più cari e aff.si saluti”.

Il giornalista e scrittore Antonio Ortoleva

Il precedente libro sul tema, autore Ortoleva