de Il Tavachino

Attraverso la folla che ci dava il benvenuto, una colonna di soldati italiani marciavano su un lato della strada con le braccia alzate sulla testa. Ne vidi uno che guardava rabbiosamente mentre un civile gettò con gioia un cocomero sul mio sedile. Un altro soldato camminava con le lacrime che gli scorrevano lungo la faccia… Mai avevo visto uno spettacolo più pietoso. E i soldati italiani, mentre passavano attraverso la folla dei loro connazionali che acclamavano i soldati di un altro paese, devono essersi sentiti veramente amareggiati”.

Chi scriveva era Jack Belden, corrispondente di guerra della rivista statunitense Life. La scena così  fedelmente descritta, coi soldati italiani che si incamminavano verso la prigionia e con gli italiani che acclamano i soldati americani, fino a poche ore prima “nemici”, si svolgeva  a Giacalone, un paesino nei pressi di Monreale. Era il 21 luglio 1943.

Quello stesso giorno a Leonforte le cicale avevano rinunciato a frinire. Il cielo, come anche i cuori di tanta gente, erano cupi. La guerra, quella più sporca ,stava imbrattando le strade, le piazze, le case, gli angusti rifugi di donne, bambini, vecchi, impauriti ed affamati. La viltà, la prepotenza, la generosità, il tradimento, l’Onore e la pietà si mescolavano in una poltiglia di sangue, di polvere e di nero fumo.   Il peggio, come anche  il meglio, dell’Uomo , quel giorno a Leonforte  raggiunsero l’apoteosi.

Solo al vespro del giorno dopo, quel tragico temporale cedette il palco ad un finto cielo azzurro. Pallidi fantasmi timidamente cominciarono ad aggirarsi fra i rottami ancora fumanti ed i corpi straziati.  Da li a poco la strada principale del paese, che fu dei Branciforti, venne percorsa da un interminabile serpente di uomini e di mezzi, espressione muscolosa  di una potenza bellica mai vista prima.  Anche lì, come a Giacalone, gente macilenta sui marciapiedi agitava le mani per ricevere cibo e pace, ancora stordita da bombardamenti tanto inutili quanto micidiali. Ogni tanto lente file di polverosi soldati italiani con le mani alzate sfilavano, ignari dei lontani campi di prigionia che li attendevano.

Dopo 80 anni bisogna ringraziare i figli dei reduci canadesi se ci siamo svegliati   da quel torpore mediatico che ci ha fatto dimenticare una pagina di storia vissuta dai nostri nonni. In divisa militare, con le loro foglie d’acero a 11 punte, gli eredi dell’armata canadese sfileranno il 26 luglio prossimo  con le loro cornamuse lungo il Corso Umberto Primo. Questa volta non distribuiranno scatolette o cioccolata. Staranno lì ad ammonirci in silenzio, a ricordarci che chi ignora la propria storia non ha un passato e non avrà un futuro. E vorremmo ben sperare che ci sia qualcuno lungo i festosi marciapiedi leonfortesi che possa restituire idealmente   dopo ottanta anni, quel “sorriso negato, pregno di gratitudine” a quegl’ignoti  italiani in divisa  che  , vinti , sfilarono ,sotto le forche caudine della Storia , dopo aver   lottato  e sofferto  per onorare il giuramento di fedeltà alla propria Patria.

 

“É una storia da dimenticare
e’ una storia da non raccontare
e’ una storia un po’ complicata
e’ una storia sbagliata.”

(da “Una storia sbagliata” di Fabrizio De Andrè)