Riprendiamo con piacere il pezzo pubblicato da Massimo Balducci sul “sito delle Autonomie locali”, scaricabile a questo link.

SIGNORI SI (RI) CAMBIA

di Massimo Balducci

 Il 4 agosto scorso è stato messo a punto dal Governo uno “schema di disegno di legge recante delega al Governo per la revisione delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” (si allega il documento).  Non mi aspetto che il testo che sarà presentato alle Camere si discosterà in maniera significativa da questo schema perché esso è il prodotto del gruppo di lavoro creato ben due governi or sono presso il Ministero dell’Interno e che ha lavorato per più di due anni. Se il buongiorno si vede dal mattino c’è poco da stare allegri.

Quello che manca a questo schema è la prospettiva. È dal 1990 che il nostro governo locale boccheggia tentando di liberarsi dagli schemi di una tutela amministrativa ottocentesca per imboccare decisamente il percorso della sussidiarietà, con una serie di passi avanti e di salti indietro. Questo schema di legge delega non sembra aver percepito questo travaglio e rappresenta un vero salto indietro negando di fatto l’autonomia e considera gli enti locali come incapaci di autogestirsi e quindi bisognosi di tutela. Si tratta di un progetto di riforma che utilizza la prospettiva di chi è dentro il sistema attuale e non è pertanto in grado di immaginare come questo sistema vada superato. Chi lo ha concepito non ha una visione che si distacca dall’esistente per poter concepire modelli adatti a far fronte a situazioni molto diverse rispetto a quelle in cui il sistema attuale si è consolidato.

L’attuale governo locale italiano si è consolidato agli inizi del ‘900 con il Regio Decreto 148 del 1915 (legge Comunale e Provinciale). L’autonomia locale non faceva parte della cultura di quel tempo. Le amministrazioni locali (non i governi locali o i poteri locali come vengono denominati in Francia) erano concepite come una sorta di uffici periferici dell’amministrazione statale cui venivano affiancate istanze rappresentative atte ad adeguare alle varie realtà locali le norme nazionali. Il Comune aveva sì un Consiglio eletto ma la macchina amministrativa rispondeva al Segretario Comunale, funzionario del Ministero degli Interni che rispondeva al Prefetto e non al Sindaco. A livello provinciale il Prefetto era affiancato da una giunta provinciale amministrativa nominata dal Prefetto stesso tra i maggiorenti della provincia[1].

La situazione diviene vieppiù insostenibile, non tanto perché non rispondente ai canoni della democrazia, quanto perché, con l’espandersi delle funzioni statali nell’ambito dei servizi (cruciale a questo proposito è il DPR 616 del 1977 che trasferisce ai comuni una vera e propria valanga di compiti), diventa impossibile tecnicamente gestire tutti questi compiti dal centro che diviene un vero e proprio collo di bottiglia.

Un serio tentativo mirante a superare questa situazione viene fatto con la legge 142 del 1990. Tale legge viene approvata nel tentativo di rendere la legislazione italiana compatibile con la Carta Europea dell’Autonomia Locale che era stata ratificata senza riserve dall’Italia con la legge 439 del 1989. Qui va subito notato che la Carta Europea dell’Autonomia Locale viene chiaramente richiamata dallo schema di disegno di legge che qui commentiamo all’art. 2 comma 1 lettera d. Mentre le amministrazioni locali italiane si trovavano (e si trovano) ad operare in regime di tutela amministrativa la Carta Europea dell’Autonomia Locale afferma il principio di sussidiarietà, secondo il quale i livelli superiori di governo intervengono solo se e quando chiamati dai livelli più vicini ai cittadini per venire in loro aiuto nel caso si renda necessario un intervento di più ampio respiro.

La legge 142/90 intacca solo superficialmente il regime di tutela. Gli ultimi trenta anni sono un susseguirsi di conati verso la sussidiarietà e di salti indietro che fanno ripiombare il nostro governo locale in un regime rigido di tutela amministrativa. Viene abolito il vincolo dell’autorizzazione preventiva per gli atti del Comune e della Provincia da parte del Comitato Regionale di Controllo ma resta molto ambigua la posizione del Segretario. Con provvedimenti successivi alla l. 142/90 (leggi Bassanini in particolare la l. 59/1997 e la legge 127/1997) il Segretario viene sottratto al controllo del Ministero degli Interni e inserito in una speciale Agenzia concepita come ente bilaterale, sul modello del Centre Nationale de la Fonction Publique Territoriale francese, afferente alle associazioni di Enti Locali (ANCI e UPI) e ai sindacati della funzione pubblica locale e dei segretari. Nell’ambito di questa agenzia veniva poi creata la Scuola Superiore dell’Autonomia Locale con il compito di reclutare/formare con il meccanismo del corso-concorso i segretari e di formare i dirigenti degli enti locali. Purtroppo, però, l’agenzia dei segretari viene abolita e le sue funzioni trasferite ad organismi provinciali sottoposti alla tutela del Ministero dell’Interno. Con l’abolizione dell’agenzia scompare anche la Scuola Superiore dell’Autonomia Locale (DPR 70/2013). I segretari vengono gestiti da agenzie provinciali sottoposte alla tutela del Ministero dell’Interno. Non viene abolito il parere preventivo, obbligatorio anche se non vincolante, del Segretario sugli atti degli enti locali. Questo parere risulta in effetti una sorta di autorizzazione preventiva per tutti quei piccoli comuni che non dispongono di un sofisticato apparato di funzionari in grado di sviluppare una prospettiva diversa da quella di un funzionario che, alla fin fine, è sottoposto alla tutela del Ministero dell’Interno. Il Segretario si trova poi in una posizione profondamente ambigua essendo chiamato a svolgere la funzione di “consigliere del sindaco” (ex L. 127/1999) e, contemporaneamente, di braccio operativo della procura della Corte dei Conti Regionale cui deve riferire tutti i risultati delle attività di controllo interno.  Risulta evidente che la figura del Segretario non ha più ragion d’essere in un sistema che afferma di essere fondato sul principio della sussidiarietà. Ci si sarebbe aspettato, pertanto, che lo schema di disegno di legge delega prevedesse la risoluzione di questi conflitti con i principi della Carta Europea dell’Autonomia Locale basata non sulla tutela amministrativa ma sul principio di sussidiarietà eliminando il ruolo di segretario e salvaguardando la grande professionalità che i segretari hanno e che riescono ad esercitare con grande difficoltà vista l’ambiguità e contraddittorietà dei compiti loro affidati dalle varie leggi. Invece questo schema di legge delega prevede il mantenimento della funzione e nulla dice mirante a salvaguardare il patrimonio di professionalità dei Segretari che restano a dover convivere con tutte le ambiguità del loro ruolo.

Il fatto che il principio della tutela amministrativa sia ancora predominante nella nostra cultura amministrativa è confermato dal fatto che i nostri enti locali sono pestiferati da circolari emanate da dirigenti di vari ministeri che vorrebbero imporre agli enti locali modalità operative ed organizzative. Anziché promuovere la professionalità del personale degli enti locali attraverso adeguata formazione, dopo aver abolito la Scuola Superiore dell’Amministrazione Pubblica Locale, si cerca di ingessare il funzionamento degli enti locali imponendo loro modalità organizzative ed operative in violazione della Carta Europea dell’Autonomia Locale e dell’art. 5 della Costituzione.  Lo schema di legge delega oggetto della presente analisi ignora tutta questa problematica. La concezione dell’ente locale come ente inferiore che non gode di pari dignità dello Stato è tradita anche da frasi del tipo “al fine di assicurare l’indipendenza funzionale a garanzia del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione locale, anche attraverso il rafforzamento degli uffici di supporto del Ministero dell’interno” (art 6 comma 1 lettera a).  In maniera particolare ignora la tematica della formazione e dello sviluppo della carriera del personale degli enti locali.

Per quanto riguarda lo sviluppo di carriera andrebbe tenuto presente che esso non può avvenire nell’ambito dello stesso ente locale che, tranne rare eccezioni, è troppo piccolo per permettere una vera carriera. Lo schema di legge delega arriva, bontà sua, a prevedere quello che oramai si fa da decenni e cioè “l’introduzione di misure di coordinamento in materia di capacità assunzionale tra unione e comuni associati” (art. 7 comma 1 lettera d) e “riconduzione a una disciplina omogenea della validità delle graduatorie concorsuali, nel rispetto dei limiti stabiliti dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165” (art 7 comma 1 lettera e). Di fatto si ribadisce l’esistente e non si sa procedere oltre. Ci si sarebbe aspettato che questo schema di legge delega prevedesse la creazione di una funzione pubblica locale quanto meno a livello regionale in modo da permettere lo sviluppo di percorsi di carriera attraverso più enti. A questo proposito mi permetto di rinviare al mio libro recentemente pubblicato (M. Balducci, Un gatto che si morde la coda, ovvero le riforme della pubblica amministrazione, analisi e suggerimenti, Milano, Guerini, 2023 dove descrivo cosa viene fatto in proposito in altri Paese e dove declino alcune possibili soluzioni realizzabili anche con la legislazione vigente).

La gestione delle risorse finanziarie è un ulteriore campo in cui emerge evidente la contrapposizione tutela amministrativa/sussidiarietà. A partire dagli anni ‘90 dello scorso secolo le risorse proprie degli enti locali sono venute aumentando arrivando a rappresentare in media il 75% ca. delle risorse degli enti locali. Qui vi sono comunque dei ritorni indietro ad esempio quando, per motivi presumo elettorali, l’IMU sulla prima casa è stata abolita anche se essa viene rimborsata ai comuni. Quello che rientra nella più tradizionale tutela è la gestione delle risorse. Un ente veramente autonomo deve farsi carico della gestione responsabile delle risorse che i cittadini gli conferiscono. Questo richiede che il bilancio preventivo venga licenziato prima dell’inizio dell’esercizio finanziario. Orbene tale era la previsione della legge 142/90. Piano piano questa norma è stata svuotata e si è arrivati a conferire al Ministro dell’Interno il potere di emanare decreti con cui si autorizzano gli enti locali a sforare questa scadenza. Oramai i bilanci preventivi (autorizzativi delle spese e delle entrate) della maggior parte degli enti locali vengono approvati, a seguito dell’autorizzazione concessa dal Ministro dell’Interno, tra giugno e luglio in questo modo svuotando tutti i meccanismi di gestione della performance e di controllo interno di ogni significato. Lo schema oggetto di questa analisi specifica che i decreti legislativi che saranno emanati sulla base della legge delega dovranno prevedere che solo in casi eccezionali sia possibile rinviare la approvazione del bilancio preventivo (cfr. art. 8 comma 1 lettera d dello schema). Qui va richiamato che oggi ca. il 5% dei comuni italiani riesce ad approvare il bilancio preventivo prima della fine dell’anno precedente a quello cui si riferisce il bilancio. Quindi, ad oggi, non ci sono ostacoli che impediscono l’approvazione del bilancio preventivo nei tempi canonici. L’unico vero ostacolo è la insufficiente preparazione tecnico-professionale del personale degli enti locali. Di nuovo qui emerge il solito problema di fondo: anziché fornire gli enti locali delle competenze necessarie con adeguati percorsi formativi si ripiega su di un paternalistico atto di benevola tolleranza del Ministro. Lo schema di legge delega non affronta il problema, magari prevedendo che (come avviene per esempio in Francia) i comuni che non presentino il bilancio preventivo entro i termini si vedano il bilancio preventivo scritto dalla Corte dei Conti regionale.

Lo schema di legge delega qui analizzato non dedica nessuna particolare attenzione ai ruoli non coordinati e/o sovrapposti di Corte dei Conti Regionale, Revisori e Organismo Indipendente di Valutazione. La situazione attuale presenta due grosse disfunzioni: (i) da una parte si tengono separate le modalità di controllo di correttezza della spesa (Revisori) dal controllo sul raggiungimento dei risultati Organismo Indipendente di Valutazione), laddove dovrebbe essere evidente che i risultati ottenuti vanno ponderati al loro costo; (ii) non si affronta il problema della duplicità dei dati inviati dai revisori e dall’amministrazione alla Corte dei Conti, dati per di più ridondanti che rendono di fatto impossibile ai funzionari della Corte di stare dietro a centinaia di pagine ridondanti quando per ogni ente locale basterebbero pochi dati riassuntivi. Non viene inoltre affrontato il problema della reale indipendenza dei revisori che vengono scelti dall’ente e la cui remunerazione è decisa dallo stesso ente.

Sospendiamo qui il giudizio sul comma 1, art 2 lettera l dello schema. Con la legge 81 del 1993 il Sindaco e il Presidente della Provincia non vengono più votati dai Consigli dei rispettivi enti ma vengono eletti direttamente dai cittadini. Il problema è che sindaci e presidenti di provincia, seppur legittimati da una elezione diretta, non hanno strumenti di governo dal momento che tutte le decisioni (salvo le ordinanze emanate a seguito di segnalazione delle ASL) sono prese dalla Giunta. Se è vero che gli assessori sono nominati dal Sindaco o dal Presidente della Provincia è pur vero che gli assessori sono indicati in maniera perentoria dai partiti che hanno determinato la vittoria elettorale del Sindaco o del Presidente. Conosco direttamente diversi casi in cui il Sindaco, forte della sua elezione diretta, è andato avanti per la sua strada rimuovendo l’assessore recalcitrante. La situazione si è rapidamente trasferita al Consiglio dove il Sindaco si è visto sfiduciato e costretto alle dimissioni. Mi auguro che l’espressione “centralità della figura dell’organo monocratico di comuni” (art. 2 comma 1 lettera l dello schema) stia ad indicare il superamento del meccanismo della giunta.

Un ulteriore commento va fatto in relazione alla situazione delle gestioni associate e delle province. Non è chiaro se chi ha steso questo schema di legge delega fosse consapevole che la norma sulle gestioni associate e la legge Del Rio sono state dichiarate anticostituzionali (Sentenza 33 del 2019 della Corte Costituzionale relativa al fatto che i comuni possono sottrarsi all’obbligo di gestioni associate e Sentenza 240 del 2021della Corte Costituzionale sulla legge del Rio). Il fatto è che il problema della dimensione dei comuni e quello delle province non vanno affrontati separatamente ma vanno risolti congiuntamente. Da una parte passare da un comune di 1.500 abitanti ad una gestione associata di 10.000 abitanti non risolve il problema delle economie di scala. Dall’altra parte bisogna capire che il livello delle prefetture (ottimale per l’esercizio delle attività di controllo) e quello dell’erogazione di servizi tecnologici non possono coincidere. L’esperienza di diversi altri Paesi dimostra che i servizi che richiedono le collettività locali odierne sono talmente complessi da superare l’ambito comunale. In Francia la gestione di questi servizi è stata obbligatoriamente data alle Comunità urbane. Da quando si è realizzato questo passo il numero di enti partecipati dai comuni si è quasi dimezzato. In Germania i servizi tecnici non possono essere gestiti dai Comuni ma devono essere gestiti dai Distretti. In Germania paese che ha una popolazione di ca. 81 milioni di abitanti si contano meno di 1.000 enti partecipati dai Comuni. Di fatto sia in Francia che in Germania, per ogni Prefettura esistono ca. due Comunità Urbane o due Distretti. Il riferimento di questo schema di legge delega agli incentivi ai comuni per motivarli ad associarsi o fondersi mostra quanto questo documento sia lontano dalla realtà con cui si ha a che fare.

Anche su questo tema mi permetto di rinviare al mio recente libro M. Balducci, Un gatto che si morde la coda, ovvero le riforme della pubblica amministrazione, analisi e suggerimenti, Milano, Guerini, 2023 dove la situazione francese e quella tedesca sono descritte nel dettaglio in modo da poter rappresentare un utile punto di riferimento per il nostro Paese.

Un’ultima considerazione riguarda il fatto che questo schema di legge delega non prende in considerazione il problema della rappresentanza degli enti locali. Tale rappresentanza è di fatto affidata all’Unione Province Italiane (UPI) e all’ANCI (associazione nazionale dei comuni italiani). Mentre l’UPI non presenta alcun problema, l’ANCI di fatto anziché rappresentare le istanze dei comuni funge da cinghia di trasmissione del controllo statale sull’operato dei Comuni. Ca. il 78% del bilancio dell’ANCI è rappresentato da trasferimenti dallo Stato e non da risorse provenienti dai Comuni. L’ANCI viene poi usata dal Ministero dell’Interno per gestire corsi dedicati all’applicazione da parte dei Comuni di circolari ministeriali che non dovrebbero mai essere emanate. Di fatto questo schema di legge delega ignora il fatto che le istanze dei Comuni non trovano adeguata rappresentanza nell’ambito della Conferenza Stato Città e della Conferenza Unificata.


[1]      Solo dopo la seconda guerra mondiale ai Prefetti viene contrapposta una Provincia governata da cittadini eletti.