di Luana Ninfosi

ENNA – Non si dovrebbe mai smettere di parlare di violenza di coinvolgere e sensibilizzare contesti, società e pensieri. Solo così si può far qualcosa per migliorare certe storie e dare un finale diverso alle donne, madri, figlie e altro. Donne che subiscono quotidianamente violenze e che sono costrette a “stare zitte”, perché ricattate anche di perdere i propri figli. Donne etichettate come malevoli o ostacolanti. Madri che proteggono i figli, la loro incolumità e la loro vita. Hanno questa “colpa”.

Donne che soffrono e si tengono dentro tutto per non incorrere al giudizio delle persone. Donne che non parlano per difendere la famiglia. Donne che sono costrette a scendere a compromessi. Questa intervista racconta la storia di una donna con la D maiuscola. Una madre coraggio. Una donna fantastica, che non ha esitato a proteggere i suoi figli, senza mai abbattersi, da cui trarre esempio.

È Patrizia Cadau (ex consigliera M5S del Comune di Oristano). È una donna vittima di violenza. Lei ha subito per molti anni aggressioni fisiche e psicologiche dentro le mura domestiche, da parte dell’ex marito. Una donna che ha affrontato e affronta tutt’oggi una durissima battaglia legale, una donna determinata che non si arrende di fronte alla paura, gli stereotipi e pregiudizi della società di cui purtroppo siamo partecipi.

Oggi sei in prima linea nella lotta contro la violenza. Com’è iniziata la tua storia di violenza?

“La mia storia di violenza è una storia antica ed eterna come tutte le storie di violenza che accomunano le donne. Stessi scenari, sfumature simili, medesimo registro culturale. La mia storia di violenza nasce presto, perché, ma questo l’ho scoperto dopo, i violenti sono violenti sempre, sono predatori, spesso narcisisti, bugiardi, manipolatori. E in questo senso anche se non ne ero consapevole la mia è sempre stata una storia di violenza, di manipolazione di bugie che si sono rincorse nel tempo fino a consolidare un quadro di abusi. È difficile riconoscere un bugiardo perché ha passato tutta la propria esistenza a perfezionarsi in questo ed ecco perché si tarda troppo a credere ad una donna che piano piano diventa consapevole di quanto le sta accadendo”.

C’è stato un giorno in cui hai avuto davvero paura per te e per i tuoi figli?

“Un giorno recuperai tutto il coraggio che ho potuto trovare e sono andata in una stazione di polizia a dire che avevo paura e che non ritenevo consono l’uso che il violento faceva delle armi in casa. Fui allontanata in malo modo, con sgarbo, e pure con qualche malcelata intimidazione. Quando rientrai a casa, il violento era già stato informato di questo fatto, me lo disse con spregiudicatezza e violenza, ma anche con un sorriso pieno e soddisfatto: “Non ti hanno creduto e non ti crederanno mai, perché sei una povera inutile donna di merda”. Scappai con i miei figli nella loro camera chiudendo a chiave la porta e aspettando che lui se ne andasse per poter uscire. A casa ricordiamo benissimo che quella sera nessuno di noi pensava di arrivare vivo all’indomani”.

Qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?

“Quando presi coscienza con orrore e con profonda vergogna per me stessa, che i miei figli venivano intimiditi con le armi o con le minacce che se non si fossero comportati bene avrebbe ammazzato la loro mamma. Ma anche la consapevolezza che non mi avrebbe mai lasciata libera, che avrebbe continuato in questo esercizio incontrollato di crudeltà continua, anche e soprattutto dopo la separazione, anche dopo l’interruzione della convivenza. Ho capito che per tutta la vita avrebbe cercato di annientarmi, e ho deciso che anche se l’avesse fatto io dal canto mio avrei fatto di tutto per difendermi e rendere vani i suoi tentativi fino a ridicolizzarne la portata”.

Cosa hai fatto a quel punto e come ti sentivi. 

“Sono andata a denunciare, con uno spirito diverso ma anche con una caterva di prove: le prove sono importantissime e le donne devono cominciare a registrare tutto perché tutto giocherà contro di loro e avranno bisogno di ogni singolo messaggio o conversazione. Mi sentivo sola, impaurita, umiliata, ferita oltre ogni limite, ma c’erano i miei figli e sapevo che dovevo proteggerli, e proteggere me. Me li sono caricata sulle spalle e ho cominciato ad attraversare l’inferno scalza. Da qualche parte sapevo che finché avessi avuto loro avrei potuto abbattere qualsiasi ostacolo, quello che non sapevo è che la fatica, la pazienza, il dolore sarebbero stati i miei unici compagni di viaggio per molto tempo”.

Cos’è successo dopo la denuncia? 

“Dopo la denuncia anni di processi e ricorsi, che durano tutt’ora. E due condanne per maltrattamenti a 4 anni e sei mesi di pena, in primo grado. Lo Stato è una macchina imprecisa e elefantiaca, che raggiunge la sua massima condizione di inadeguatezza proprio quando deve affrontare casi di violenza domestica. Ed è qui che emerge il paradigma sessista e patriarcale con cui ancora s’intendono i rapporti tra i generi e tra genitori e figli. I padri sono comunque padri, non vengono mai costretti a pagare, hanno il diritto di mantenere la responsabilità genitoriale pure se colpevoli di violenza e inadempienza, e pure se condannati non vengono mai costretti a pagare che sia un centesimo di multa come un giorno di pena. Il nulla. Nel mio caso poi, come in una vicenda Kafkiana, mi ritrovo rinviata a giudizio perché per avere raccontato e denunciato la mia storia, avrei leso l’onore e la reputazione del violento condannato. Una vera e propria intimidazione di stato alle donne, un primitivo invito a stare zitte, a lavare i panni sporchi in casa, quando sappiamo bene che la violenza su una donna ha valenza pubblica, lo dice anche la Corte Europea per i diritti dell’Uomo. Eppure devo andare a processo come imputata perché sono viva, e solo perché sono viva parlo trascinando nel mio racconto le responsabilità della violenza che sono sempre collettive”.

Hai mai pensato di non essere creduta?

“Ogni volta ho pensato di non essere creduta. Quando provavo a parlare mi veniva proprio fatto notare che sembravo esagerata, che non era possibile, che il violento sembrava gentile e affabile. Anche le famiglie ti credono con difficoltà e guardano alla lenta erosione dei tuoi diritti e delle tue libertà come una cosa inevitabile, in quanto donna. E ancora adesso c’è uno zoccolo duro di negazionisti, diciamo così, che sostengono il violento, che esprimono le loro perplessità sui social e altri luoghi definendomi finta martire, falsa vittima, una che strumentalizza la vicenda, per cosa poi non lo so, visto che la mia attività legata alla violenza è completamente gratuita, non ho associazioni, non ho attività da promuovere o da vendere, per dire. Anzi aggiungerei che l’esposizione pubblica è un onere: aver reso pubblici i miei lividi è stato un passo faticoso, ma se è servito anche ad una sola donna mi ricompensa di tutto”.

Come sei riuscita ad andare avanti? Cosa ti ha dato la forza?

“La parola è rivoluzionaria e liberatoria. Tanto più parlavo e raccontavo, tanto più mi sentivo libera e padrona di gestire la comunicazione distorta su di me da parte del violento e dei suoi complici che mi aveva tagliato le gambe per tanto tempo. Attraverso il racconto noi attiviamo dei processi di guarigione interiore soggettivi e collettivi, e soprattutto ribaltiamo quella situazione di potere in cui i violenti hanno il coltello dalla parte del manico. Una donna che parla fa paura, quella stessa paura con cui per anni è stata condizionata diventa la condizione degli altri che l’hanno accusata di essere bugiarda. Davanti ad una donna libera che sopravvive e che parla, tutti i complici e i fiancheggiatori della violenza diventano improvvisamente dei nemici impegnati a lesionare quella voce. E allora la forza l’ho trovata nella mia stessa voce e nella possibilità di condividerla con altre, perché anche le altre potessero salvarsi. Io stessa ascoltando i racconti delle altre ho cominciato a salvarmi: nessuna si salva da sola. E poi l’altro punto di forza sono stati i miei bambini: questa responsabilità enorme di fare vivere loro il tempo più sereno possibile in una condizione fragile come la nostra. Probabilmente non ci sono riuscita, ma ci ho provato: i miei figli dicono sempre che a loro è comunque mancata la mamma, perché impegnata a combattere la violenza. E hanno ragione. Tutto il tempo che la violenza ti divora, è tempo sottratto alle favole, alle cose da fare insieme. Il violento ti distrugge economicamente, psicologicamente e fisicamente e poi trova nello Stato e nelle leggi un alleato potentissimo con cui reiterare violenza e agire stalking giudiziario. In un certo senso, ha vinto, perché il tempo che avevamo diritto di vivere ci è stato sottratto per sempre.”

Che consiglio ti senti di dare alle donne che hanno subito violenze?

“Intanto un consiglio, se posso, lo voglio dare a tutti indistintamente: in ogni relazione fuggite dalle bugie. La bugia è già una forma di violenza e manipolazione, e quindi di controllo, con cui una persona vuole condizionarvi. La bugia è l’anticamera della violenza e se non tutti i bugiardi sono violenti, è certamente vero che tutti i violenti si riveleranno bugiardi. Per cui se si vuole partire da qualcosa di concreto partiamo da questo. Fuggite dalle bugie e da chi vi mente. A chi ha subito violenza consiglio di accumulare prove. Molte donne non sanno nemmeno che quello che subiscono sono reati, è necessario parlare e confrontarsi, in primis nei centri antiviolenza e poi con altre donne e un avvocato. Ma alla fine servono le prove e le prove si accumulano con pazienza, registrando ogni cosa, le liti soprattutto, memorizzare e archiviare vocali, video quando è possibile, attivare le chiamate in vivavoce quando il compagno violento minaccia, offende, insulta, in modo che ci siano anche testimoni diretti di quello che succede. Non fatevi scoraggiare da chi non vi crede: perché ci sono tantissime persone pronte a raggiungervi nel baratro in cui vi hanno fatto precipitare. Abbiate pazienza e fiducia. Non è semplice, ma si può fare ed è comunque l’unica cosa da fare per spostarvi da dove siete e pensare ad una nuova vita da donne libere”.