di Josè Trovato
ENNA – Prima notizia. In provincia di Enna numerosissimi condannati per mafia hanno lasciato il carcere nell’ultimo anno. Altri stanno per essere scarcerati. Il numero esatto è complicato, perché non esistono registri. Il calcolo, bisogna farlo empiricamente o con gli avvocati. Lo abbiamo fatto.
Il dato riguarda arrestati o indagati a piede libero, che liberi sono rimasti anche se sulla loro testa pendono accuse gravissime, nelle ultime operazioni coordinate dalla Dda di Caltanissetta. Citiamo solo i casi più eclatanti, perché parliamo di personaggi ai vertici o tra i capi dei loro clan. Sono in giro per le strade almeno 5 pregiudicati per mafia o “reati fine” a Leonforte, 2 a Enna (capo e vice capo), 3 a Valguarnera, almeno 5 tra Piazza Armerina e Aidone, 2 a Regalbuto, tutti ad Agira (tranne uno, ritenuto il capo) e quasi tutti coloro che furono coinvolti nell’operazione Discovery di Troina, 1 a Gagliano Casteferrato, 2 o 3 a Cerami, almeno 2 a Villarosa e uno a Calascibetta. A Barrafranca e Pietraperzia molti sono ancora in carcere, ma le operazioni Ultra e Kaulonia sono recenti. Attenzione: è giustissimo che se non vi sono esigenze cautelari si resti liberi. È giustissimo che chi ha scontato la propria pena torni libero. Esiste un problema enorme legato alle certezza della pena, ma questo è un altro discorso.
Il caso della vicina Gela
Alcuni degli arrestati, ad ogni modo, torneranno in prigione quando la pena sarà definitiva. Altri ci torneranno perché la recidiva è un dato preoccupante. A Gela almeno 2 ergastolani, condannati per omicidio, oggi sono totalmente liberi. Può succedere? In Italia si.
Gela non è in provincia di Enna, certo, ma è a un tiro di schioppo da Piazza Armerina e tanti malacarne gelesi hanno commesso crimini in provincia di Enna. È storia, dal delitto Saffila in giù. Inoltre non si può dimenticare che il loro boss per antonomasia, Daniele Emmanuello, gelese doc, uno che fu accusato di essere tra i carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matte, è stato ucciso in un conflitto a fuoco mentre cercava di scappare dalla polizia a Villapriolo, nell’Ennese.
La prima storia di oggi è questa: loro sono liberi. È un dato di fatto. Liberi boss, vicecapi, vicerè, ominicchi, quaquaraquà.
Le intercettazioni hanno raccontato di come l’ultimo referente conosciuto del famigerato clan di Enna abbia scelto di allontanarsi da Enna. Poi ha fatto sapere ai suoi picciotti di “stare fermi”. Alcuni però hanno risposto fregandosene. Dalle intercettazioni della recente inchiesta Lua Mater emerge che loro, piuttosto che stare fermi, hanno scelto di cambiare parrocchia, di farsi arruolare dal clan Santapaola di Catania.
L’allarme scorte
Notizia numero due. Nell’Ennese, personalità in prima fila contro la mafia, in queste settimane, stanno ricevendo notizie preoccupanti. All’improvviso alcune scorte sarebbero diventate “a termine”. Nel 2025 tutti dovrebbero sapere cos’è una scorta, ma è bene precisarlo: sono quei poliziotti, carabinieri, finanzieri, che seguono una persona che rischia di subire attentati, per evitare che ciò avvenga. I casi più eclatanti riguardano le scorte di Falcone e Borsellino.
In provincia di Enna alcune persone a rischio – gente che ha personalmente fatto finire in prigione dei mafiosi, che ha colpito duramente, personalmente, Cosa Nostra – oggi ricevono comunicazioni contenenti le “date” di conclusione delle scorte. Normale, è stato detto loro. “Nulla di preoccupante: decorso quel termine, saranno rinnovate”. Sta di fatto che tra sei mesi, un anno, otto mesi, la mafia non avrà dimenticato. E lo Stato non potrà per nulla al mondo permettersi di fare diversamente.
L’odio mafioso non si cancella, i propositi “omicidiari” (per dirla come un verbale in carta bollata) non scadono come lo yogurt. Ora, va precisato: nessuno sta cancellando le scorte. Sono notizie che destano preoccupazione, a chi rischia la pelle, ma l’auspicio è che tali date di scadenza poi vengano prorogate. Magari sarà pure un passaggio scontato, ma occorrerà una nuova analisi della situazione, una nuova analisi del rischio.
Il “dimostrato bisogno”
La terza storia farebbe quasi ridere, se non ci fosse di mezzo la vita umana. Sei una persona esposta, che ha subito e denunciato minacce, tentativi di estorsione, istigazioni all’odio sui social, o altri rischi diretti? Se le tue denunce non sono recentissime, forse non hai più bisogno del porto d’armi per difesa personale. Chi credi di essere? L’Ispettore Callaghan? Non ti serve una pistola. Sembra pazzesco, ma l’inghippo sta tutto in un’espressione contenuta nell’articolo 42 del Tulps, il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Puoi avere il porto d’armi per difesa personale. Si, ma solo se c’è il “dimostrato bisogno”. Si presenta un delinquente con la lupara. A quel punto devi dirgli: “Stop gioco! Fermati! Prima di sparare pensa. Dammi il tempo di chiedere il porto d’armi e poi ci vediamo!”. Poi ti fai autorizzare. Magari dopo che quello ti ha sparato.
Nel 2002 in Italia i porti d’armi per difesa personale erano 45.618, nel 2023 (dato più recente) 11.360. C’è una stretta, una stretta necessaria, forse, ma in Sicilia è intollerabile. Ohibò: c’è gente che i requisiti per il porto d’armi forse non li aveva neanche prima. Nell’Italia che investe negli armamenti, che si è impegnata a spendere in armi il 5 per cento del proprio Pil, oggi, una persona che rischia di essere uccisa non si può difendere. Un paradosso in una provincia dove non più di sei mesi fa, una banda di delinquenti del Catanese è giunta di notte in una piazza, ha preso in ostaggio le persone puntando mitra e pistole e ha sradicato la cassaforte di una gioielleria. È successo ad Agira la notte tra il 17 e il 18 marzo. La provincia di Enna sta vivendo una pericolosa riemersione di fenomeni delinquenziali, anche frutto (forse) della liberazione dei mafiosi di cui sopra.
Nel recente passato avevamo contattato una persona della provincia di Enna per una dichiarazione. La notizia era che un boss mafioso, in un’intercettazione, diceva grossomodo: “Per ora è controllato”. Usavano una terminologia particolare per far capire che quell’uomo era inavvicinabile. In quel momento non potevano fargli niente. Non potevano chiedergli il pizzo. Si, insomma: prendevano tempo. Oggi dallo Stato quell’uomo riceve un preavviso: occhio, che non intendiamo rinnovarti il porto d’armi.
Il motivo? Manca il “dimostrato bisogno”. Oggi gli chiediamo: “E’ una questione che riguarda solo te?”. “Nient’affatto. Diversi imprenditori che da sempre sono sotto il mirino della criminalità rischiano oggi di non vedersi rinnovare la licenza di porto d’armi perché, per una interpretazione restrittiva dell’art 42 del Tulps, nell’ultimo anno non hanno denunciato fatti che provano il “dimostrato bisogno”. Dal punto di vista logico però, il fatto che per un anno un imprenditore sia stato lasciato tranquillo dai criminali o avvicinato in maniera “garbata” da non poter fare scaturire una denuncia formale, non significa, anche alla luce della rigenerazione criminale che purtroppo si rileva, che quell’imprenditore è ormai fuori pericolo”.
Insomma: non vale a nulla il fatto che si sta parlando di persone perbene, senza alcun precedente penale, che hanno sempre gestito l’arma con attenzione, sono andate al poligono, sono state attente, non hanno mai tirato fuori l’arma di fronte a nessuno… che non hanno mai sparato a nessuno (ça va sans dire). Che poi a volerla dire tutta loro, il bisogno, lo dimostrerebbero anche, se solo li ascoltassero. L’auspicio è che abbiano modo di farsi ascoltare da persone che non trattino gli esseri umani come numeri e che non debbano assecondare nessuna “circolare ministeriale”. Tutti hanno diritto di difendersi, se rischiano la vita. E che debbano – loro, non i criminali – ricorrere agli avvocati, nel 2025, specie quando al governo nazionale hai dei politici che hanno fatto della sicurezza uno dei temi centrali che hanno portato alla loro elezione, forse, è un altro paradosso.
Tre notizie. Tre storie siciliane. Una sola grande amarezza.
(N.B.: LA FOTO RISALE A SETTEMBRE 2024: OPERAZIONE “LUA MATER”)