di Irene Varveri Nicoletti

Il 7 ottobre 2023 ha segnato un capitolo tragico nella storia recente del Medio Oriente. In quel solo giorno, l’attacco lanciato da Hamas contro Israele causò oltre 1.200 morti e circa 250 rapiti, gettando una zona già fragile in una spirale di violenza e rappresaglie.

Tra i bersagli colpiti, il festival musicale Supernova (o Nova Sukkot Gathering), un evento di musica e convivialità nel deserto del Negev, si trasformò improvvisamente in un massacro: centinaia di partecipanti furono assassinati, molti altri rimasero feriti o presi come ostaggi.

Sono trascorsi due anni da quel 7 ottobre che ha segnato un confine nella coscienza collettiva. Da allora il tempo ha continuato a scorrere, ma il dolore vero, senza colore o nazione è rimasto sospeso e senza risposta.

L’accostamento al tema del conflitto israelo-palestinese rischiaquasi sempre uno scivolamento nella trappola della polarizzazione: noi contro loro, giusti contro colpevoli. Ma adottando una prospettiva meramente umanitaria, quelle categorie cedono il passo a qualcosa di più complesso.

E proprio in questi giorni di memoria, di guerra, ma soprattutto di vittime, appare utile, per ritrovare l’immagine primordiale della vita che si muove in armonia, un accostamento con La Danza di Henri Matisse. Cinque figure nude, unite in un cerchio su un prato verde e sotto un cielo denso di blu, celebrano il ritmo della terra, il respiro comune, la libertà dei corpi e dello spirito. Entrambe le due versioni del quadro raccontano ciò che di più semplice e miracoloso esista: la gioia condivisa, la comunione senza parole.

Tuttavia, oggi, quello stesso cerchio non può che apparirci incrinato. Il gesto che unisce diventa fragile, la presa delle mani sembra potersi spezzare da un momento all’altro. La danza di Matisse, nata come emblema di felicità, ci appare come un sogno interrotto: un’eco di ciò che l’umanità era — o avrebbe potuto essere — prima che la violenza della nostra epoca la disperdesse. In questa nuova luce, il quadro si trasforma: non più solo celebrazione, ma elegia.

Non esistono vittime che valgano più di altre. Ogni vita perduta, israeliana o palestinese, è una nota sottratta alla terra. La guerra, qualunque volto assuma, è sempre la negazione di quella danza, il silenzio che segue la musica. Forse ricordare significa proprio questo: continuare a vedere le figure di Matisse che si tengono per mano anche quando, intorno, tutto spinge a separarle.

Oggi, il compito della memoria non è soltanto quello di rievocare, ma di restituire senso. Guardare La Danza con occhi nuovi vuol dire riconoscere che la bellezza non è evasione, ma resistenza: il gesto di chi, nonostante tutto, sceglie ancora di credere nell’altro.

Continuare a immaginare quella danza, seppure spezzata o ferita, significacontinuare a credere nella possibilità della pace.