di Giovanni Vitale
In realtà il verbo “etnificare” non esiste e, giustamente, il vocabolario (Devoto-Oli) non lo riporta. Non riporta nemmeno ‘etnificazione’ che, invece, è un termine tecnico ma che non ha a che fare con l’azione del vulcano siciliano e con le sue spettacolari eruzioni, né con le sue colate di lava.
Il termine infatti deriva da ‘etnìa’ (dal latino èthnos), che è un sostantivo femminile e sta ad indicare un “aggruppamento umano basato sulla comunità di caratteri somatici, culturali, linguistici.” È usato dalla linguistica, appunto, riferendosi all’attività che una ‘determinata popolazione’ svolge per unificare i vari dialetti parlati in un’unica LINGUA, geograficamente circoscritta. Nel nostro caso si tratta di ciò che a seguito del Risorgimento, una volta “fatta l’Italia”, c’era il problema di “fare gli italiani”, di sviluppare cioè quell’identità nazionale che dalle “Alpi alla Sicilia” li unisse, oltre ogni caratteristica locale, in una sola “espressione” culturale.
In effetti la lingua italiana esisteva già come espressione letteraria, forgiata dal bolognese Guinizelli e dal siciliano Jacopo da Lentini; sommamente elaborata dal Petrarca e da Dante che nel Purgatorio della sua Commedia ce la indica come “dolce stil novo”. Ma, appunto, si trattava di una lingua specificamente letteraria, “aulica e poeteggiante”, ben lontana dal parlare della gente comune che, invece, comunicava con le proprie parlate locali, spesso molto diverse le une dalle altre. È il Manzoni che per primo avvicina tale lingua italiana al “parlar del popolo”, facendo esprimere i personaggi de ‘I promessi sposi’ con un italiano che traduceva i modi di dire e i pensieri che, fin lì, erano stati espressi in dialetto.
Fu lo stesso F. De Sanctis, fine intellettuale e Ministro della Pubblica Istruzione del neonato Regno d’Italia, ad avvertire la necessità della comune lingua nazionale. E fu P. Valussi, friulano, a “metter nero su bianco” cosa bisognasse fare perché ciò avvenisse al meglio. In effetti ci fu tutto un proliferare di testi scritti secondo le intenzioni nazionalistiche, seppure non seguendo esattamente un programma coerente ed efficace. E fu il piemontese V. Bersezio che, riconducendo tutto alla matrice socio-letteraria, e percependo la carenza della proposta manzoniana sul piano socio-pragmatico, propose modalità che ne superassero i limiti.
Ed è con quei curiosi casi della storia, per cui accadono eventi che concretizzano perfettamente gli intenti migliori, che proprio un siciliano, Giovanni Verga, secondo la linguistica contemporanea (G. Nancioni, ripreso da Gabriella Alfieri dell’università di Catania) è stato il vero contraltare del Manzoni, dall’Alpi alla Sicilia dicevamo! “Nei Promessi sposi il fiorentino parlato era servito a etnificare l’italiano letterario per attingere una medietà da proporre democraticamente come modello di lingua scritta e parlata; nei Malavoglia, all’opposto, l’italiano letterario si limita a residui morfosintattici che spiccano su un italiano regionalizzato minimalista in superficie per lo scarto infinitesimale tra discorso dei personaggi e discorso autoriale, ma di fatto dotato di un profondo spessore semantico e simbolico.”
Il ché è come dire che è con i racconti delle vicende catanesi e di Acitrezza che si perfeziona e concretizza quell’ideale linguistico nazionale tanto sperato. Anche se, ad onor del vero, quell’unità d’Italia tanto vagheggiata è a tutt’oggi ben lungi dall’essersi realizzata quanto a parità di benessere e opportunità per le genti dall’Alpi alla Sicilia, mentre l’Etna ancora… fa fuoco e fiamme come allora!