di Salvo La Porta 
Leonforte, 5 maggio 2021
Era “spaddinu” lo zio Tano. Aveva una spalla sensibilmente più alta dell’altra.
Non era nato con questa particolarità fisica; si era abituato a questa posizione sin dall’adolescenza, camminando a ridosso dei muri e postandosi sotto i balconi delle strade del paese, per guardare di sottecchi le gambe delle femmine che, nei giorni caldi, più o meno ignare si affacciavano.
La giacca di colore blu scuro, che solitamente indossava, gli pendeva dal lato destro e custodiva occhiali da vicino, fazzoletti, cianfrusaglie di ogni genere e… stringhe spaiate di scarpe con cui, all’occorrenza, prestava pronto soccorso agli amici, che in difficoltà gliene facessero richiesta.
Lui calzava mocassini di grande qualità, nere o testa di moro sempre tirate a lucido, perchè diceva che erano più comode nel caso in cui si dovesse sfuggire improvvisamente alle ire dei mariti, con le cui donne (accidentalmente o dopo lunghi e pazienti appostamenti) gli capitava di intrattenersi.
Fazzolettino bianco al taschino, un garofano rosso profumato o qualche foglia di cetronilla in mano, solitamente sbarbato, erano le scarpe la prima cosa che guardava in quelli che incontrava o passavano dinnanzi la sua bottega ai Pipituna.
Ma questo è un vizio comune a tutti noi calzolai: la scarpa è la carta di identità di chi la calza e dall’osservazione della scarpa è facile risalire alla qualità della tomaia, della suola, della fattura e, cosa più importante, scoprire se proviene dalla nostra bottega o no.
La sua bottega la gestiva in società con Vicinzuzzu, serio padre di famiglia e gran lavoratore, al quale lo zio Tano affidava la fiducia e l’onere, diciamo così, della amministrazione interna.
Per lui, si era ritagliato il ruolo di amministratore delegato alle relazioni esterne.
Ci stava poco in bottega e, quando doveva, poche erano le volte in cui si soffermava nel laboratorio del retro. Quel luogo era riservato al suo socio; lo zio aveva ben altro da fare.
Appoggiato con la spalla destra al vetrinone del negozio, la mano sinistra era deputata a bucare un uovo di campagna, portarlo voluttuosamente alla bocca e, finalmente, sorbirlo.
Aveva un intercalare, al quale faceva ricorso nei momenti in cui si trovava in imbarazzo, per catturare meglio l’attenzione del cliente del negozio o dell’interlocutore: “Completamente”.
Non aveva vizi; non giocava a carte, non beveva, non fumava, non pizzicava tabacco.
Era rimasto scapolo sino ad un’età considerevole, cedendo alle lusinghe del matrimonio, solo quando i suoi amici più cari e i suoi parenti gli prospettarono come sarebbe stata triste e vuota la sua vita da vecchio senza una compagna accanto.
Neppure i nipoti, ai quali era morbosamente legato, avrebbero mai potuto riempirlo il vuoto della vecchiaia.
In fin dei conti, che bisogno c’era di prendere moglie, se “completamente” c’erano le mogli degli altri, boh…?
Il sesso lo viveva come una missione ed un vero e proprio missionario del sesso si sentiva.
Amava circondarsi di giovani, che non gli mancarono mai del dovuto rispetto e sinceramente gli volevano bene.
Tra questi c’eravamo Aldo Primo, Nino, Leo, monsignor Silvestre Lo Sicco, giovane seminarista, io e tanti altri, destinatari del racconto delle sue esperienze e dei suoi suggerimenti erotici, al confronto dei quali le pagine dell’ars amatoria ovidiana erano solo carta straccia.
Quando si andava con una femmina, non bisognava mai dimenticare di munirsi di un bagaglio leggero, ma utile alla buona riuscita dell’incontro amoroso; indispensabili erano una serie di fazzolettini profumati e, “completamente”, un barattolo di “notella”, come la chiamava lui.
I fazzolettini si sa a cosa possono servire; ma la “notella”? Quale dovesse essere l’uso della “notella” ce lo descrisse diverse volte con dovizie di particolari scabrosi, che il buon gusto e le buone maniere mi consigliano di consegnare alla fervida, boccaccesca immaginazione dei pochissimi lettori, che avranno la benevolenza di leggermi.
Quando si parlava dell’uso della “notella”, i “completamente” erano innumerevoli e nella foga del discorso capitava che spesso diventassero “contemporaneamente”.
Noi giovani ascoltavamo tra il serio e il divertito.
Lo zio sempre serio, dottorale, professorale… missionario.
Quando il discorso si faceva caldo, sollevava lo sguardo dalle nostre scarpe e ci guardava in viso, quasi mai negli occhi, abbozzando un sorriso compiaciuto e complice che, sollevando per tre quarti il labbro superiore, lasciava intravedere a destra della bocca i denti.
Un sorriso che, prima di noi, Nino Buttafuoco aveva battezzato “sorriso durbans”, con chiaro riferimento alla nota pasta dentifricia.
Non gli mancammo mai di rispetto allo zio Tano. Non se lo meritava da parte nostra, perchè ci voleva veramente bene.
Ma giovani eravamo e, come tutti i giovani non potevamo lasciarci scappare l’occasione di combinare qualche scherzo.
Specialista in scherzi e “tragedie” varie era Leo. Biondino e dinoccolato aveva ed ha, tuttavia, un’aria seria e innocente che gli consente di imbastire gli scherzi e le “tragedie” più impensabili. Bugiardo per vocazione, gli amici lo avevamo nominato direttore responsabile di un fantomatico quotidiano, titolato “La grande menzogna”.
Tra una verità evidente e una menzogna, preferisce sempre la menzogna. La sua è una chiamata.
Almeno una al giorno ne deve dire di menzogne!
Ma gli altri non eravamo da meno. Neppure Silvestre Lo Sicco, il monsignore ieratico che ormai ci siamo abituati ad ascoltare in religioso silenzio. Neppure lui.
Accadde così che, nel tardo pomeriggio di una caldissima giornata estiva, ci ritrovassimo sulla mia fiat brava blu fiammante Silvestre, Leo ed io.
L’idea, non ci crederete, fu di Silvestre: “Perchè non invitiamo lo zio Tano ad una passeggiata?”
Tutti d’accordo, in men che non si dica lo zio Tano era già in macchina, accomodato davanti.
Dopo le prime battute sul caldo torrido, che non si poteva respirare, non si fa fatica ad immaginare dove fosse caduto il discorso.
Io ero alla guida, dietro Leo e Silvestre. Davanti , come un Papa, lo zio.
All’altezza di don Vito, il giornalaio, fermai la vettura e, dopo avere chiesto scusa, feci per scendere.
I due dietro fecero anche loro per scendere, mentre lo zio Tano ci invitava a fare presto che lui ci avrebbe aspettato in macchina.
Non l’avesse mai fatto. Subito, notai un guizzo diabolico nello sguardo di Silvestre Lo Sicco, che Leo tempestivamente raccolse.
“Si chiudunu i finistrina di sta machina?” fece Silvestre. “Certu ca si chidunu” ribattè Leo.
“Si rapinu e si chiuduno” aggiunsi io.
“Ma cuomu si puonu chiudiri e rapiri si nun ci su manigghi?” continuò subdolamente e mefistotelicamente Lo Sicco.
“Co cumannu da vuci” disse Leo. “Faciticcillu vidiri, cumpà”.
L’invito era troppo goloso, perchè lo lasciassi cadere; per cui, premetti il tasto elettronico e con voce roboante esclamai: “Apriti” e poi, “chiuditi”.
Ovviamente, i vetri degli sportelli si aprivano e chiudevano a mio comando.
Scendemmo, dopo avere chiuso accuratamente i vetri e rassicurato lo zio Tano che saremmo immediatamente tornati.
Con uno sguardo d’intesa, bloccammo la macchina dall’esterno e sparimmo per alcuni minuti dallo sguardo del malcapitato zio Tano, che avevamo lasciato (delinquenti) rosolare alla calura estiva.
Trascorso qualche minuto, Lo Sicco (sempre uomo di Dio era!) ci consigliò di non tirare troppo la corda, perchè anziano lo zio era, e decidemmo di tornare.
A pochi passi, sentimmo le urla di un uomo tra lo straziato e l’adirato.
Era lo zio Tano che, rivoltosi alla povera macchina, imprecava, “apriti, apriti, morti buttana; ti dissi apriti”.
Accorse per primo, manco a dirlo, Lo Sicco che con aria serafica, dopo avere aperto la brava, chiese allo zio che cosa fosse mai accaduto, perchè si dimenasse in quel modo.
Lo zio farfugliò qualcosa, quindi ci accomodammo tutti e tre in macchina e chiedemmo anche noi.
Ricevemmo la risposta che immaginavamo. Tutti cercammo di dare una ragione alla disubbidienza della macchina.
Alla fine, come accade sempre, fu Lo Sicco a trovarla. “Certu, ziu Ta’, cuomu s’aviano a rapiri sti vitra cu tutti sti parulazzi ca ci ha dittu a stà povira machina!?”.
Rasserenatasi l’aria, la macchina com’era prevedibile riprese ad obbedire ai comandi, mentre noi tre ci guardammo negli occhi, sorprendendoci vergognosamente sghignazzare dentro di noi.
Non era prevedibile, invece, la piega che prese la conversazione dopo il fattaccio.
“Zi Ta’, pirchì’ si dici morti buttana?”
Non l’avevamo mai visto incupirsi così.
“Pirchì?” cominciò, “è sempre con noi, accanto a noi. Sin dalla nascita ce la portiamo dietro. Non ci lascia un momento. Si presenta all’improvviso. Inaspettata, quasi mai gradita. Scostumata, sguaiata, beffarda, buttana appunto. Gioca con noi come il gatto con il topo; ci lascia, ci prende, ci lascia ancora andare, graffiati ma illusi di poterle sfuggire, per poterci rapire finalmente e saziare la sua insaziabile voracità”.
“Pirchì è buttana?” continuò “Perchè va con tutti. Con i maschi e con le femmine. Con i giovani e con i vecchi va. Sempre lei a scegliere , sempre lei a tenere il gioco. E’ tanto capace di fare quello che vuole di noi da farci abbandonare gli affetti più cari, le cose per le quali abbiamo lottato una vita e che con lacrime e sangue abbiamo conquistato e gelosamente avevamo custodito”.
“Mi chiedi, mi chiedete perchè e buttana? Ve lo dico io perchè. Perchè preferisce i giovani, le madri e i padri di famiglia. Preferisce i teneri virgulti, che si affacciano alla vita e abbandona nella sofferenza, gementi nel dolore delle piaghe i vecchi che languono nel letto della malattia, tra lenzuola gelide o madide di maleodorante sudore. Ne volete ancora? Perchè separa gli amanti è buttana; perchè… perchè mi fa credere che presto verrebbe a portarmi con lei e poi non viene. Mi lascia ad aspettare. Ad aspettare ed a soffrire mi lascia. Nella mia angoscia mi lascia e sogghigna senza pietà. Crudele. Mentre sa che con il suo bacio, solo con il suo bacio potrei finalmente trovare la mia pace. Buttana è”.
Rimanemmo ammutoliti, forse attoniti. Non ci restava che augurarci la buona notte e darci appuntamento come sempre per l’indomani. Sempre con il permesso di quella gran buttana della morte.
Ci congedammo anche dallo zio, questa volta (forse la prima volta) con una carezza ed un bacio.