di Salvo La Porta

Il battesimo del piccolo Tommaso si celebrò nella chiesa del convento dei Padri Predicatori Domenicani il tre luglio, giorno della festa di san Tommaso Apostolo.
Caldo da morire… il caldo umido di Catania.
La cerimonia, fissata per le diciannove in punto, fu davvero solenne; alle sette meno dieci, le sorelle Teresina e Agatina Rappè con il pargoletto in braccio alla mamma avevano già occupato le prime sedie del tempio.
Entrambe indossavano un castigato elegante taiellur cremisi ed un’elegante veletta dello stesso colore; sembravano gemelle.
Ed entrambe non cessavano di sventolarsi con uno spagnoleggiante ventaglio merlettato, color marrone chiaro.
Che caldo sentivano… e com’erano commosse ed emozionate!
Non la smettevano un momento, tutte e due, di “annacare” nervosamente il piede della gamba destra che, contravvenendo alle regole del galateo, avevano accavallato sulla sinistra. Due ballerine in pausa…
Intanto, arrivavano tutti gli altri; c’erano i parenti Rappè di Pietraperzia e c’erano i fratelli di fra Silvestre e, financo, don Peppino e donna Sarina Lo Sicco genitori del padrino, che a quel bambino volevano bene come ad un nipote, stante le particolari premure, che il figlio gli riservava.
Con ritardo (ma in tempo), al solito, rossa e trafelata si presentò Serafina, che alle cinque si era accorta di avere i capelli in disordine e si era fatta accompagnare da un aitante parente, presso la Toletta Roma di via Vittorio Emanuele per una messa in piega.
Pepè, tra il nervoso e il preoccupato, non aveva smesso un minuto di guardare l’orologio e si chiedeva cosa mai sarebbe potuto succedere alla ragazza, che finalmente andò a sedere sulla sedia accanto alla mamma e lo degnò appena di un cenno di saluto.
“Solo un distratto saluto?” si disse, “avrebbe potuto mandargli anche il cenno di un bacio…un sorriso. Ma così era Serafina. Una bambina; una bambina…troppo timida era!”
C’erano anche i soliti curiosi… figuriamoci!
Tutti sudati, appiccicati, imprigionati nei vestiti della festa.
byQuello che sembrava non dovesse soffrire il caldo era quell’armuzza ‘nuccenti di Tommaso che, perso nella lunga veste di seta bianca e con la testolina coperta da una splendida cuffietta, faceva sentire a stento qualche debole vagito, come per dare il segno della sua presenza e porgere il benvenuto.
Fresco come una rosa, pareva aspettasse pazientemente il momento in cui sarebbe diventato cristiano e il successivo rinfresco.
“Unni mi chiovi mi sciddica”, sembrava dicesse a quelli che andavano a regalargli una carezza posando, a dispetto della mamma e della zia, la mano sudaticcia sulla candida veste.
Silvestre aveva pensato a tutto; il battesimo sarebbe stato amministrato dal Priore, alla conclusione della Messa conventuale in onore di san Tommaso.
Al suono della campanella, come per incanto, la chiesa si illuminò a giorno e le canne dell’organo vibrarono in tutta la loro intensità, per accompagnare il canto d’ingresso eseguito dalla Schola cantorum sancti Dominici.
La porta della sacrestia si spalancò e, come per magìa, apparvero tre giovani chierici; due ai lati, che facevano oscillare il turibolo e uno al centro con la navetta degli incensi.
Quindi, un altro chierico, che portava la pesante croce processionale d’argento, due file di frati dai più giovani ai più anziani, quindi il Priore con a fianco due diaconi.
A seguire lo stendardo del Terz’ordine maschile e i terziari; in ultimo lo stendardo femminile e le terziarie.
Mentre la processione avanzava lungo il corridoio di seggiole, il fumo dei pregiatissimi incensi pervadeva l’aria, riuscendo quasi a fare dimenticare gli assalti della calura.
Un paradiso…..
Quando tutti ebbero preso il loro posto e l’organo finì di suonare, il Priore ai piedi dell’altare maggiore fece il segno della croce e tuonò, “Introibo ad altare Dei.”
“Ad Deum, qui laetificat juventutem mea” risposero gli altri.
Cominciava la celebrazione della Missa cantata De Angelis. Un paradiso…un vero paradiso.
Il battesimo non fu meno solenne. Furono distribuite e accese le candele e tutti seguirono Agatina con in braccio il piccolo Tommaso, Teresina e l’emozionatissimo fra Silvestre.
Un po’ discosto, non lontano, fra Maria Angelico che, in deroga all’usanza consolidata di attribuirne ad una giovane donna la prerogativa, riuscì a strappare il privilegio di “lavare la cuppulidda” intrisa dell’acqua e degli olii battesimali al neonato-cristiano.
L’emozione e la commozione non possono essere descritte; ancora incensi, canti gregoriani e… lacrime, tante lacrime.
Tommasino, al solito, come se il fatto non fosse suo; tutto compreso nel ruolo di protagonista, degnava appena di qualche timido, composto vagito.
Il bambino era stato finalmente battezzato e, come si dice, avrebbe preso “i sette rami do’ pipinu” ed anche i caratteri “do’ pipinu di cuoppula”.
 
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Il rinfresco ebbe luogo nel chiostro del convento, dove gli intervenuti erano accorsi, cercando e trovando finalmente un po’ di refrigerio.
Le suore benedettine di via Crociferi avevano preparato un’infinità di dolci e, nonostante il caldo, le loro famose crispelle di riso, trionfavano sulle tavole, che i camerieri della vicina pasticceria Scardaci avevano imbandito con candide tovaglie damascate.
La stessa rinomata pasticceria aveva fornito la tavola calda, i gelati, le cassate, le bibite, i rosoli ed un impeccabile servizio.
Le donne si erano potute finalmente liberare delle loro velette e timidamente anche delle giacchette degli abiti, rimanendo praticamente con le spalle nude e con scollature, che nelle più giovani tradivano lo scoppiare dei seni, su cui si posavano spudoratamente gli sguardi dei maschi e, con una specie di ipocrita disappunto, quelli costanti e furtivi dei frati, specie dei novizi.
Piante e fiori dappertutto!
Anche il piccolo Tommaso fu liberato della lunga veste e delle fasce e parve “arrifriscare”; tanto che ( mentre la zia gli cambiava il panno sotto il controllo della mamma, dei padrini e di qualche invitato) non ebbe alcun ritegno di destinare uno “sghiccio” di pipì sul volto compiaciuto di fra Silvestre, che non potè fare a meno di sorridere ed esclamare, “ acqua biniditta”!
“Acqua biniditta”, gli fece eco con una grassa risata fra Maria Angelico….” Acqua biniditta”, ripeterono gli altri, allegri e compiaciuti.
Il trattenimento fu molto piacevole, sembrava che il caldo avesse voluto dare una piccola, inusuale tregua; a volte, arrivava persino un gradevole rinfrescante alito di vento.
Un trattenimento davvero gradevole, ricco, sontuoso; a volte, a dispetto del luogo, quasi sfarzoso.
La conversazione tra gli invitati era amichevole, familiare, serena; di tanto in tanto, addirittura mondana.
L’argomento principe, manco a dirlo era il piccolo Tommaso. “Che bambini come quello, saggio, paziente e bello” nessuno ne aveva mai visti; “ Che era tutto spurpato il quadro della mamma, della zia, del nonno….dello zio Tufano. Quant’era bieddu”.
E che ancora non si poteva dire a chi somigliasse ( anche per il fatto che questo era sottociuto, ma sottinteso, nessuno sapeva chi fosse il padre), perchè si sa i bambini nei primi mesi di vita cambiano fisonomia….” setti misi, setti visi!”
 
 
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Fu davvero una bellissima, piacevolissima serata, alla fine della quale, ci si cominciò a congedare, per raggiungere ciascuno il proprio letto.
Anche in questo caso, fra Silvestre aveva pensato a tutto. I suoi fratelli e i suoi genitori sarebbero stati ospiti della foresteria del convento; i Rappè, Serafina e i suoi genitori nella grande casa di via Gisira, dove ci sarebbe potuto essere stato posto anche per Pepè che, per una doverosa forma di convenienza, fu dirottato presso la pensione Larvata, al secondo piano di via Coppola numero sei.
Fu concesso, tuttavia, al buon Pepè di unirsi al drappello della sua amata Serafina e dei genitori di lei.
Si sarebbe accontentato di starle vicino, di sfiorarla, di catturarne un baleno degli occhi, di dissetarsi allo sguardo dell’ odoroso seno, di inebriarsi dell’odore della rosea e fresca pelle.
Sarebbe stata la sua compagnia nel giaciglio di via Coppola!
Serafina… lei rimaneva indifferente o quasi; beata di vedere uscire pazzo un pover’uomo al quale, praticamente, riservava il trattamento benevolo che i signori si degnano di concedere ai loro sottoposti.
“ Una bambina, una bambina era, continuava a pensare…una timida bambina! Un fiore. Un fiore di purezza e di verginità!”
In compagnia dei suoi turbinosi pensieri e sentimenti Pepè, appena congedatosi da quel “fiore”, si incamminò per raggiungere la pensione di via Coppola, proprio a due passi dal teatro Massimo Bellini e adiacente alla via Di Sangiuliano.
Si avviò, dunque, per la Pescheria; ne percorse un tratto e non potè trattenersi di fermarsi sugli scalini della chiesa della Madonna dell’Indirizzo, della quale sua madre Tuzza era devotissima. Recitò una preghierina e si mise in cammino, questa volta in compagnia della mamma, che gli sussurrava parole che non gli andavano proprio giù.
In men che non si dica, attraversò la via Pardo e si ritrovò tosto alla “Fontana dell’acqua al lenzuolo”. Un’altra breve sosta e via per un breve tratto di via Etnea, sino al numero sei di via Coppola.
Stanco, sudato, bussò e venne ad aprirgli il cavalier Giuseppe Larvata che, quasi senza parlare, gli indicò il luogo del suo giaciglio.
Proprio di un giaciglio si trattava; non proprio pulito e nella stessa camera separato, per mezzo di tende instabili e traballanti, da altri giacigli, dai quali scappava via ogni sorta di rumori e di odori.
Si tolse solo le scarpe, pose il portafoglio sotto il cuscino e cercò di prendere sonno in compagnia di Serafina.
Ma il caldo lo agitava ed essere passato dalla chiesa dell’ Indirizzo gli aveva riportato alla mente un’altra figura di donna, sua madre Tuzza.
Non appena accomodava Serafina accanto a sé, richiamandola in tutta la sua florida bellezza, si insinuava Tuzza che con lo sguardo tenero e nello stesso tempo severo di una mamma, gli ricordava tutta la sua contrarietà a quell’amore, che riteneva pericoloso.
“ Troppa differenza d’età c’era; e poi…e poi, la mamma della ragazza, donna Tanina, si diceva che se la fosse intesa con il barone Gaetano Enrico di Valentino e che sua nonna Serafina fosse stata amante di Giovannino Martidìa”.
Richiamato alla realtà e indispettito, Pepè faceva per stringersela ancora di più la sua amata, ma Tuzza non demordeva.
“ Che c’entrano sua mamma e sua nonna?” scoppiava.
“ C’entrano, c’entrano…”, ribatteva la vecchia, “ figghia di atta è; figghia di atta surgi pigghia!”
Si può solo immaginare come sia stato il sonno del pover’uomo.
Il caldo, il sudore, la scomodità del giaciglio, l’amore sensuale per Serafina, il richiamo severo di Tuzza…un incubo.
Fu, tuttavia, vinto dalla stanchezza che, alla fine gli ricordò che “ atta o non atta, domani pomeriggio l’avrebbe rivista quella timida, dolce bambina. A Milocca. A Milocca, l’avrebbe rivista!”