A Pietro Passarello,

illustre concittadino, che mai ha inteso sciogliere il nodo d’ amore

con la sua adorata Leonforte,

Salvo La Porta

Le terre di Milocca, terre di prima sono. Profonde, nere, grasse; sono accarezzate dalla brezza marina e baciate dal sole…benedette da Dio!
Sono talmente fertili, da non avere bisogno di essere concimate e rendono per venti volte il frumento, che vi si semina.
Per ogni dieci chili, ne rendono duecento di chili di grano e tutto delle qualità più pregiate.
Don Peppino Lo Sicco tanto ci aveva studiato, che era riuscito a dare vita ad alcune sementi di grano duro con particolari caratteristiche proteiche e nutrizionali, che rendono il cereale molto ricercato ( e molto ben pagato) dai pastifici più rinomati.
Era un uomo veramente capace e molto pio e divideva la sua agiatezza genorosamente con le persone, che gli stavano accanto; aveva dato anche ordine che nei campi si lasciassero le spighe a beneficio delle spigolatrici, che dalla lontana Calabria venivano a spigolare nei ricchi campi siciliani e degli uccelli dell’aria, che “macari iddi armaluzzi anu dirittu” di godere della grazia di Dio.
Per la sua caparbia determinazione imprenditoriale e per la pietà cristiana che esercitava, si era così guadagnato a dispetto dei soliti invidiosi, la nomina di “ Commendatore”.
Nei mesi di Giugno, Luglio, Agosto e in parte di quello di
 
Settembre, a Milocca il fuoco della calura ti brucia anche l’anima, per cui il Commendatore, per procurare un po’ di fresco, aveva provveduto a fare ritagliare nella parte più vicina alle case oltre
l’ orto, un frutteto, una bella vigna e un uliveto, “ad usu di casa”.
Aveva impiantato anche un mandorleto, perchè a donna Sarina sua moglie, piaceva preparare i picciddati e le paste di mandorla, di cui Silvestre era ghiotto.
Niente di che, “ un cintinaru di piedi di minnulera”…., tra i quali una decina di mandorla amara, che gli amaretti co’ vinu sono una vera delizia.
Quell’anno, la raccolta delle mandorle aveva superato ogni ottimistica previsione e i contadini avevano avuto il loro bel da fare ad abbacchiarle con i virianti, le lunghe aste di legno, che andavano a colpire i rami carichi, continuando sino a dopo l’ Ave Maria, quando il rumore della battitura e dei frutti che cadevano diventava una soave cadenza, che andava a carezzare il richiamo amoroso delle cicàle.
Anche stavolta, il Commendatore aveva disposto che per ogni albero rimanesse qualche mandorla, per soddisfare le esigenze dei ragazzi e di quelli che necessitavano di fare racioppi.
Si, i gentitori di don Silvestre erano davvero due belle persone; se no, si sarebbero prestati ad ospitare Carmelina Trillei e suo marito Arturo, dopo tutto il male che avevano cagionato al figlio?
Invece, come se nulla fosse successo, diedero ordine che si preparasse per loro una bella e comoda camera e si disposero ad ospitarli come si fa con gli amici più cari.
I due, in verità, possedevano una casetta ( mezza diruta, ma ancora abitabile), che insisteva su un vecchio minnulitu, confinante con quello dei Lo Sicco e che, nonostante la decrepitatezza delle piante e in grazia della grandissima abbondanza dell’annata, prometteva una ricca raccolta. Ma donna Sarina non lo poteva permettere; in nome della vecchia amicizia con i Trillei e nel ricordo dell’infanzia e della fanciullezza di Arturo, che volevano bene come ad un figlio, avrebbero aperto la
 
loro casa.
Il problema era come dirlo a Silvestre, che quella cattiva azione non l’aveva mandata giù… ma ci avrebbe pensato lei; una mamma sa sempre quale sia il modo migliore, per fare inghiottire la più amara delle medicine e, in fin dei conti, il figlio sempre uomo di Dio era e predicava sempre il perdono.
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Aveva due buoni motivi Silvestre, per essere felice quella mattina. Il primo, il più importante, che presto sarebbe stato nominato beneficiale della Chiesa di San Giuseppe, al posto dell’amatissimo e mai abbastanza compianto confratello don Nenè Delonghis; il secondo che, trovandosi a passare vicino al Chianu a’ scola, si era soffermato alla sinsalìa degli Sfricchi, i Vinciprova, e aveva appreso che la ‘ntrita ( le mandorle secche) era pagata ad un prezzo superiore a quello dell’anno precedente.
C’era veramente da stare allegri; cosicchè la buona donna potè con la solita dolcezza dirgli più agevolmente della decisione di ospitare i due “catanesi”.
In un primo momento, il prete ebbe una specie di ripugnante sobbalzo, ma poi si rasserenò, “ accussì dici, mamà? Cuomu dici vossia sia buon fatto!” la rassicurò, prendendole devotamente la mano e baciandogliela….” sia fatta la volontà di Diu e di me’ matruzza Sarina”, fece poi sorridendo.
La macchina di Gaetano Lavitola arrivò poco prima della cinque con la graditissima sorpresa di un ospite in più, fra Maria Angelico, che fu invitato a rimanere per quella sera e, per tutto il tempo che avrebbe voluto, a Milocca.
Silvestre superò se stesso, fu amabile ed accogliente e ordinò che gli amici fossero tosto rifocillati e messi a loro agio; addirittura, volle pagare egli stesso il noleggio della vettura al Lavitola, dopo averlo invitato a bere qualcosa di fresco ed avergli confidenzialmente chiesto, “ Tanù, chi si dici in via Coppola, numero,6?” ed avendo ricevuto da quello una complice strizzatina d’occhio, “ o’ solitu, patruzzu! A vossia aspettanu i signurini”.
 
Una bella serata era e fra Maria Angelico, prima di andare in camera, volle rimanere un po’ a chiachierare del più e del meno con Silvestre, al quale dava l’impressione che stesse cercando le parole adatte, per dirgli qualcosa di importante… di veramente molto importante.
 
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Curaggiu, patruzzu, chi avi di dirimi; vossa parra”; messo alle strette, fra Maria Angelico tentava ( per come poteva lui, così naif) di prendere diplomaticamente alla larga il discorso, che sarebbe dovuto andare a parare nella rivelazione di una notizia, che avrebbe sconvolto Silvestre.
Cominciò a parlare della vita conventuale, di come i fedeli si ricordassero di lui, delle bellezze del chiostro, di come le sorelle Rappè fossero sempre esemplarmente devote e di come Tommaso, ormai dodicenne…..qui si interruppe, interrotto da uno studiato improvviso colpo di tosse, ricacciando le parole che avrebbe voluto pronunziare in gola.
Ma don Silvestre non era tanto sprovveduto, da non intuire che il frate stesse per rivelargli qualcosa, che riguardava il figlioccio e che lo avrebbe turbato; per cui, rosso in viso e con gli occhi che sembrava stessero per uscirgli fuori dalle orbite, afferratolo per un braccio quasi strattonandolo, lo implorò “ Masinu? Vossa parra…vossa parra. Malatu è?”
Fra Maria Angelico si sentì sollevato e, finalmente, prese coraggio e, “ no, grazii a Diu nun è malatu..” rispose quasi ansimando.
Che stesse tranquillo Silvestre. Tommaso godeva di ottima salute. “ Sta bene; è un bambino allegro, simpatico, generoso..” qui respirò, prese coraggio, si liberò del peso che lo opprimeva e , infine, straripò tutto di un fiato, “voli trasiri o’ seminariu e vuole farsi domenicano”.
Non si aspettava proprio una notizia come quella Silvestre.
Non sapeva se gioire, se dispiacersi, se piangere, se ridere; un vero
 
e proprio “ guazzabublio” sentiva ribollire nel suo cuore ma, infine, si cominciò a tranquillizzare, pensando che si poteva trattare soltanto di una passeggera infatuazione mistica di un bambino, alle soglie dell’adolescenza.
Chiese, devotamente, al frate di guidare lui il Rosario serale e, serenamente, si ricompose psicologicamente per la cena.
La cena fu molto frugale, ma sostanziosa, ricca di tutte le buone vivande, preparate con gli ottimi e genuini prodotti della campagna e innaffiate dal buon vino del vigneto di don Peppino.
Fra Maria Angelico aveva già cominciato a mangiare le fruate, le focacce, appena sfornate e condite con olio, pepe e sale, prima con le narici, poi con gli occhi; ma ritenne disdicevole lasciarsi andare subito sul piatto posto sulla tavola, senza recitare la preghiera di ringraziamento e aspettava impaziente che si provvedesse presto a questa pia incombenza, prima di proporre un brindisi.
Dopo la preghiera, fu proprio don Silvestre ad invitarlo a proporlo il brindisi e lui non si lasciò per nulla pregare; riempì il vino sino all’orlo, invitò gli altri a fare lo stesso e, prorompendo nella sua solita grassa risata, lo alzò con gli occhi furbetti e,
vino, vinello, grazioso e bello, ieri sera mi hai fatto girare il cervello…brutto briccone, entra in prigione” sentenziò, scolandoselo d’un fiato e continuando a ridere sgangheratamente.
In verità, il brindisi fu sostituito all’ultimo momento con un altro che la silenziosa presenza di donna Sarina gli sconsigliava, “ alla saluti di stizza (goccia) e cu’ nun ni vo’ si scanna e ammazza e si fussi ‘na sarmazza ( una grossa quantità), tirituppiti ‘nti la panzazza.”
Il tempo trascorreva piacevolmente e tutti mostravano godere della graziosa ospitalità dei Lo Sicco, che erano lieti di quella bella tavolata. Lo stesso don Silvestre aveva messo da parte il suo turbamento e si era messo a conversare confidenziamente con tutti…anche con Carmelina e Arturo che, ormai completamente calvo, mangiava, mangiava come se non avesse visto mai grazia di Dio; a don Cola Carogna si stava mangiando e una parola gli si
 
doveva tirare con la tenaglia.
Quella che, invece, non si lasciava pregare di parlare era Carmelina, che si era lasciata andare a sputare sentenze, che fustigavano la rilassatezza dei costumi delle nuove generazioni (proprio lei che ne aveva fatte più di “ Onofrio in Palermo”!) e lanciava strali di fuoco contro le bizzocche, che insidiano la virtù dei preti.
Don Silvestre fece di tutto per non raccogliere e si impose un autocontrollo davvero encomiabile; successe, però, che donna Sarina (per mettere fine allo sproloquio della Trillei) invitasse il figlio a rivolgere ai convitati un fervorino, per prepararsi bene a tracorrere la notte.
Da figlio ubbidiente qual era, Silvestre richiamò l’attenzione e cominciò a parlare dell’infinita bontà di Dio che, per mezzo di Maria, ci ha donato Suo figlio il quale, anche quando ci saremo comportati male, con la sua misericordia ci avrebbe condotti in Paradiso, acciuffandoci per i capelli.
Si, e Arturu ca capiddi nun avi?” lo interruppe inopportunamente Carmelina. “ Sta’ tranquilla”, ribattè pacatamente stizzito il sacerdote, “ tuo marito lo afferrerà per le corna!”. Tutti risero, compresi Arturo e Carmelina.