di Salvo La Porta
Al mio amico don Luciano La Peruta
“ toto corde!”
Onorate l’altissimo poeta l’altissimo poeta; / l’ombra sua torna, ch’era dipartita”.
Tra il serio e il faceto uno dei preti che, convocati da padre Varano, si erano riuniti nella sacrestia della Matrice, avvertiva che stava per entrare don Silvestre e che sarebbe stato opportuno cambiare l’argomento della conversazione, della quale il nuovo arrivato era ignaro protagonista.
In verità, l’aspetto di Silvestre sembrava ricalcasse in tutto e per tutto quello di Virgilio, così mirabilmente descritto da Dante; se non altro, per il tono flebilmente afono della voce.
Per di più, si dilettava di poesia, cimentandosi in un verseggiare, a volte pregevole, ma sempre gradevole.
Ebbe, quindi, buon gioco quel prete nel ricorrere ai versi danteschi, per informare ( con una buona dose di maliziosa ironia, ai limiti del sarcasmo) gli altri della ingombrante presenza di padre Lo Sicco che, facendo intendere di non avere udito, con il solito enigmatico sorrisetto andava in punta di piedi ad occupare l’unica sedia vuota, in fondo alla stanza.
“ Ci dissi u’ surgi a nuci, dammi tiempu ca ti spurtusu ( disse il topo alla noce, dammi tempo e ti bucherò)”, pensava intanto tra sé, “ vi farò vedere io se ero dipartito; vedrete se sono un’ombra, abbiate pazienza e…vedrete”.
L’ Arciprete, di fatto, non era quasi mai a Leonforte, impegnato com’era in Vaticano, dove godeva di importanti amicizie tra i più alti prelati, che vedevano molto favorevolmente la sua nomina a rettore di uno dei più prestigiosi collegi romani di formazione sacerdotale, l’ Almo Collegio Capranica.
In sua assenza e su disposizione di Sua Eccellenza il
Vescovo, le funzioni arcipretali e quelle di Vicario Foraneo venivano esercitate da Padre Varano, che mal sopportava il peso di quella carica, che lo costringeva a mediare tra le bizzose esigenze dei preti di Leonforte, Assoro e Nissoria.
Più volte, si era recato a Nicosia a chiedere di essere sollevato; ma, ogni volta, doveva constatare di avere fatto quell’interminabile e orrendo viaggio a vuoto.
“ Grazie, per la tua disponibilità”, si era abituato a sentirsi ripetere, “ vedremo, procureremo…provvederemo”.
Non era il solo Padre Varano, tuttavia, che si recasse periodicamente a Nicosia. Come lui, altri andavano e per motivi opposti ai suoi, perché si sa “ u’ cumannari è miegghiu do’ futtiri ( comandare è più dolce di fare l’amore, ma che traduco a fare?)”.
Neppure Silvestre si sarebbe sottratto al peso di quel doloroso ed ingombrante fardello; anzi, per l’amore di Dio e del Suo popolo santo, volentieri lo avrebbe preso su di sé.
Ma a Nicosia lui non ci andava… e non solo perché il pensiero di andare e venire da quella cittadina lo faceva venire meno.
Un altro, al posto suo e con risultati migliori, avrebbe compiuto quel viaggio; suo fratello Nino, al quale i Lo Sicco si rivolgevano, quando bisognava compiere una missione, se non impossibile, spinosa.
Nino era un uomo di mondo e come tale conosceva uomini, cose e…femmine e, come si sa, “ quantu po’ un pilu di fimmini ‘nta muntata, nun po’ una parigghia di vuoi ‘nta pinnina! ( Quanto può una donna in salita, non possono due buoi in discesa).
Vantava tra le sue numerose muliebri amicizie quella con una signora, Maricchia Sanfilippo, che aveva una specie di studio di consulenza amorosa in via Trieste (proprio dietro il monumento ai caduti di piazza Quattro Novembre), presso il quale giovanotti, scapoli per necessità e padri di famiglia pruriginosi si recavano, per trovare comprensione, consiglio e rifugio.
Nino Lo Sicco era di casa e diverse volte vi aveva
accompagnato il giovane prete, amico di famiglia adesso Vescovo, che invano le aveva tentate tutte, per ricondurre la donna all’ovile e rischiando di cambiarlo proprio lui “ l’ovile”.
Un pomeriggio,quindi, Maricchia Sanfilippo e Nino Lo Sicco bussarono alla porta dell’Episcopio, per essere ricevuti da Sua Eccellenza il Vescovo.
La stessa sera, padre Varano riceveva un telegramma urgente, con il quale gli si comunicava che, a seguito delle sue pressanti richieste, era stato, “sine ulla interposita mora” sollevato dalla carica religiosa “ così generosamente esercitata” e si chiedeva a don Silvestre Lo Sicco “il sacrificio di esercitare le funzioni di Arciprete della Matrice e di Vicario Foraneo di Leonforte, Assoro e Nissoria”.
Lo stesso padre Varano avrebbe dovuto immediatamente informare il Lo Sicco, il clero ed il popolo santo di Dio della determinazione episcopale.
Seguiva la paterna pastorale benedizione.
In men che non si dica tutti furono informati e “ l’altissimo poeta” ricevette le sincere congratulazioni e le cordiali promesse di disinteressata collaborazione da parte dei suoi venerati ed amatissimi confratelli.
Della notizia venne a conoscenza anche Giuseppe Travaglia, Pippinu l’ uorbu, banditore ufficiale del Comune, che si affrettò a vanniarla ( gridarla) da tutte le cantunera del paese.
Pippinu l’uorbu, com’è facile intendere, era cieco dalla nascita; ma, nonostante il suo difetto fisico, conosceva ogni angolo del paese.
Dei leonfortesi, molti li riconosceva dalla voce, alcuni addirittura dal rumore dei passi, altri ancora…dal loro odore.
Non è che lui profumasse molto, in verità; anzi, a causa della sua condizione, gli capitava spesso di incorrere in alcuni inconvenienti, dai quali neppure quelli con una vista d’aquila erano immuni.
Molte strade erano disselciate e vi razzolavano liberamente le galline, mentre i maiali grugnivano e grufolavano, lasciando
disinvoltamente i loro escrementi (che andavano ad aggiungersi a quelli di cani e gatti, lasciati anche essi in libertà), sui quali capitava di poggiare il piede. A tutti capitava; figurarsi ad uno che non ci vedeva!
Girava Peppino, aiutandosi con il suo bastoncino bianco, instancabilmente per tutto il paese e fermandosi agli angoli delle case per gridare le ordinanze municipali e quanto altro sarebbe potuto essere di pubblico interesse.
Di altezza media, magro ma non smunto, rivestito di una giacca quasi sudicia, aveva legata al collo una cordicina dalla quale pendeva una sconquassata cassetta di legno, che finiva a poggiarglisi sul torace e alla quale era appiccicata una sbiadita immaginetta, che voleva raffigurare le anime del Purgatorio.
Sopra e sotto la cassetta, due fessure che gli consentivano di recuperare svelto la povera moneta, che un povero benefattore gli dava in elemosina.
Quando non aveva da assolvere alle sue, diciamo così, funzioni istituzionali, il grido diventava quasi un lamento di implorazione di aiuto in nome delle Anime Sante del Purgatorio, “ Armi do’ Priatoriu, divotiiiii”,straziava.
Il timbro della voce, ad un tempo squillante ed oltretombale, aveva in sé qualcosa di dolce malinconia che, insinuandosi nelle pieghe più nascoste dell’anima, sembrava fare sentire la voce dei cari defunti, bisognosi di essere ricordati con le opere di misericordia e con la preghiera.
Sembrava che Pippinu l’uorbu un contatto diretto con l’aldilà l’avesse e che un’opera di bene fatta a lui per conto dei cari trapassati, ne andasse ad arrifriscare l’arma.
La povera gente, che non poteva permettersi il lusso di sborsare una seppur minima somma in offerta per una Messa di suffragio, ricorreva a una qualsiasi opera di bene in favore di quell’uomo che, in tempo reale si metteva in contatto con il defunto.
Nella via Pentolai, nelle adiacenze della Granfonte, la povera vedova di Cola non aveva che un uovo da offrire e, ogni venerdì
puntualmente, Peppino le si presentava davanti l’uscio di casa, per sorbirlo quell’uovo bello caldo.
Era quasi un rito. Sedeva su un furrizzu e stringeva il bastone bianco tra le gambe. Quindi, bucava l’uovo alle due estremità e
“ o Cola, ca ti duormi ‘nti sta terra, ti manna stu’ arrifriscu to’ mugghieri…ti manna stu’ arrifriscu to’ mugghieri…e pi l’amuri to’ iu mi sucu st’ uovu”,tuonava prima di cominciare a sorbirselo.