di Salvo La Porta
Al mio carissimo cugino Aldo Primo Furno e, con il suo permesso, alla di lui moglie Laura.
Per il giovane Tommaso le parole di fra Luciano furono rasserenanti e…( come dire?) “illuminanti”; avrebbe perseverato sulla strada della sua vocazione monacale. Si, avrebbe!
Considerava la famiglia domenicana come la naturale prosecuzione della sua e non si poteva staccare da quella famiglia. Quella era la sua strada e poi il Signore, nella sua infinita misericordia “avrebbe compreso” e lo avrebbe aiutato e sostenuto.
E infine, che cosa mai era successo di tanto grave?
“ Facciamo conto che si sia trattato solo di un sogno”, si ripeteva, “ se ne fanno tanti di quel tipo di sogni a sedici anni…ma che sogno, che magnifico sogno, che dolcissimo sogno! Si, solo un sogno era stato. Niente più di un sogno. Che siamo noi a cercarceli i sogni? Vengono e basta.”
Tuttavia, un periodo di riflessione e preghiera non sarebbe stato male. Anzi, un’ottima idea era.
Prima che andasse a cercare fra Maria Angelico (che intanto era stato pesantemente redarguito da fra Luciano e che aveva già fatto una dettagliata esposizione dei fatti a don Silvestre) questi gli si parò davanti, quasi volesse chiedergli che cosa intendesse fare.
Tommaso gli tolse subito ogni dubbio e, senza fare alcun riferimento alla casa della signora Ninedda, cominciò a parlargli della bellezza della vocazione domenicana e a chiedergli ogni notizia utile a percorrere santamente l’impervio sentiero, che lo avrebbe condotto a diventare un buon frate predicatore.
Gli confidò anche che gli sarebbe piaciuto rimanere un po’ e in tutta tranquillità in campagna e che sarebbe stato bello se il suo padrino, don Silvestre, avesse ospitato lui, la mamma, la zia
e la domestica per qualche giorno a Milocca.
Il frate…capì ed, esplodendo nella solita grassa e fragorosa risata, lo rassicurò che certo che si, don Silvestre sarebbe stato felice di ospitarlo a Milocca con le tre donne e che anche lui si sarebbe volentieri aggregato alla compagnia, anche perché suo padre, don Luigi Lagati ormai anziano, aveva bisogno che qualcuno lo consigliasse nella conduzione del suo famoso canile nelle terre di Santo Rocco.
Con uno sguardo compiaciutamente complice, quindi, chiese al ragazzo se prima della partenza avrebbe mai pensato e gradito fermarsi per un salutino nella casa di via Maddem, ricevendone un’immediata, convinta e asciutta risposta positiva.
“ E’ giusto”, pensava Tommaso, “fermarsi a salutare; specie dopo la bellissima accoglienza, che mi hanno riservato. E, poi, hai visto mai un altro sogno? Si, certo che sarebbe andato”.
All’imbrunire, insieme a fra Maria Angelico, di nuovo vestito in abiti borghesi, si ritrovò a bussare con una certa ansiosa impazienza alla porta di servizio del palazzotto di via Maddem.
Ad aprire sempre l’ineffabile signora Ninedda che, questa volta, gli riservò la stessa medesima cordiale accoglienza, che era solita riservare al suo accompagnatore.
Entrarono ed una nuova signorina accompagnò Tommaso nel salottino di velluto rosso, lasciando l’altro a chiacchierare in tutta confidenza con la “padrona della casa”.
Accomodatosi sui divani ed investito da una nuvola di sensuali profumi, Tommaso si sentì in dovere per buona creanza di chiedere notizie sulla signorina di prima e, poiché
la sua nuova compagna sembrava infastidita e tergiversava nel rispondergli, insistette ancora e più di una volta, per sapere perché mai la ragazza non c’era.
Si sentì finalmente rispondere che Fanny era andata a fare una “quindicina” a Palermo.
Le “quindicine” della casa erano molto diverse da quelle, alle quali era abituato il giovane; ma lui non lo sapeva e si rallegrò molto nel sentire che quella ragazza si dedicava a delle
pie pratiche, tanto da domandare candidamente a quale santo o santa avesse dedicato Fanny la sua “quindicina”.
La ragazza non poté trattenere una risata, che gli parve un po’ sguaitella e, poggiandogli le labbra rosse sull’orecchio, che ormai era diventato di fuoco, “ San Virticchio Apostolo” gli sussurrò.
“San Virticchio? C’era un Apostolo con questo nome?
Mai sentito…”, pensò Tommaso.
Ma non ebbe il tempo di ripetersi la domanda che si ritrovò avviluppato in un altro “sogno”, che si palesava non essere da meno di quello precedente e che per tanto tempo nelle ore di solitudine avrebbe richiamato alla memoria.
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A Milocca, la prima persona che Tommaso incontrò fu quella birichina di Serafina che, appena lo vide, andò ad abbracciarselo e a sbaciucchiarselo, togliendogli quasi il respiro e con una foga, che cominciava a metterlo in imbarazzo e gli solleticava, facendola crescere notevolmente di subito, quella parte del corpo che i giovani adolescenti maschi sono soliti visitare con maggiore frequenza.
“ Tali nasu, tali fusu”, si era detta la monella con involontario riferimento alle parole latine “ Mentula tam magna est, quantus tibi, Papyle, nasus”, che gli eruditi fanno risalire ad un epigramma di Marziale e che nel dialetto leonfortese rendeva in maniera ineccepibile la correlazione tra la grandezza del naso e quella del membro virile del suo possessore.
In verità, il naso al caro Tommaso era cresciuto di molto. Eccome, se gli era cresciuto…….e Serafina aveva preso l’innocente abitudine di fantasticarci su sulla “ prominenza” situata al centro della faccia del ragazzo e sulla sua “correlazione”.
Pepè se ne era accorto, ma era abituato alle ingenue
intemperanze della donna.
Quello che, invece, non era disposto a passare su a quelle divagazioni era Turuzzu, con il quale da tempo la ragazza aveva scoperto una specie, non meglio definibile, affinità elettiva.
Donna Sarina, che teneva sempre sotto controllo ogni aspetto della vita di Milocca e che ben conosceva le particolari inclinazioni di Serafina, capì anche lei e decise che era giunto il momento di tenerla più impegnata nelle faccende di casa.
Quel sant’uomo del Veterinario Valenti, sollecitato dal Commendatore, si era presentato con una trippa di bue tutta intera e con ben due secchi di “ stigghiola” d’agnello.
Ce n’era lavoro da fare. Pulire la trippa era un’impresa.
Il cattivo odore appestava l’aria e doveva essere messa subito in acqua calda, prima di essere sgrattata con il coltello, sino a farla diventare bianca. Non parliamo di quello che ci voleva per le stigliole. Serafina avrebbe avuto il suo bel da fare….e non avrebbe avuto il tempo di pensare ad altro.
Don Silvestre aveva invitato per l’indomani, che era la festa di San Francesco di Paola, alcuni amici di Catania, molto cari a Tommaso che, senza dubbio, sarebbe stato felice di ricevere il regalo di quella graditissima sorpresa.
Tra gli altri, erano stati invitati Calogero Sinardi, Magnifico Rettore del Convitto “Cutelli”, del quale il ragazzo era promettente allievo, Mario Laneri, nipote del vecchio Arciprete e Direttore di Segreteria dello stesso Convitto e, persino, fra Luciano da Padula. Fra Maria Angelico era di casa; anzi stanziale a Milocca. Non si smuoveva neppure con le cannonate, dimostrando di apprezzare la cucina di donna Sarina. Per lui, non c’era bisogno di inviti!
Il Commendatore Peppino Lo Sicco di Tramontana era un ospite attento e preciso. Non lasciava nulla al caso e voleva che i suoi ospiti avessero la migliore accoglienza e che si sentissero a loro agio. Tutto doveva essere “giusto e perfetto”.
E, infatti, l’indomani prima che gli invitati di don Silvestre arrivassero, tutto era “giusto e perfetto” e Pepè, come al solito, era già alla “tannura” ad accendere il fuoco.
Fu una giornata davvero bella, indimenticabile. Tutti si divertivano e tutti si complimentavano con i padroni di casa e con don Silvestre. Tutti. Un po’ meno Pepè, che poco alla volta
cominciava a pensare che la disinvoltura di Serafina forse era un po’ eccessiva, portandosi di tanto in tanto, senza accorgersene le mani alle estremità della fronte, come se qualcosa lo pungesse.
Il tempo, come si sa corre, e Silvestre si accorse che bisognava correre in paese, per la solenne processione in onore di San Francesco di Paola.
La compagnia si mise subito in cammino per Leonforte e Pepè si vide assegnato l’ingrato compito di controllare i portatori del simulacro del Santo protettore del vino e delle botti.
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Arrivarono che nel piano stavano ancora allestendo
l’ albero della cuccagna, “ ‘a ‘ntinna” e in chiesa Sarbatura, una donna cieca, dirigeva il rosario cantato a San Francesco, “ San Fràncisco di Pavola, mio dileeettoo, venite alla mia casa che vi aspeeettoo, venite cu ‘na ranni compagniiaa, Gesù, Giuseppe, Sant’Annà e Maria!”
Il Parroco dell’Annunziata, sulla cui giurisdizione cadeva la chiesetta, avrebbe celebrato la Messa; per cui, Silvestre si mise a confessare, mentre Afrò Intile, stretto nel suo attillatissimo vestito di velluto nero liscio con un fazzolettino ricamato al taschino, svolazzava per finire di addobbare di trine, veli e merletti la statua del Santo che, di li a poco, sarebbe stata portata in solenne processione per le vie cittadine.
Finalmente, le due campanelle della chiesa cominciarono a suonare a festa; furono sparate alcune salve di cannone e la banda musicale, diretta dal maestro cugino Giovannino Lo Gioco, cominciava a suonare “Cuore Abruzzese”.
La processione sembrava che dovesse regolarmente snodarsi, quando all’improvviso un drappello di devoti particolari si posizionò sotto il fercolo per la disperazione di Carmillino e, in barba al tradizionale tragitto, si diresse all’osteria di donna Rosalia, incurante delle proteste del clero e dei fedeli e nello sbigottimento dell’unico vigile urbano presente.
San Francesco di Paola era il protettore del vino; quindi, la sua casa era l’osteria e da casa sua doveva almeno passare.
Bene o male il santo fu portato da donna Rosalia, che non immaginava neppure di ricevere una visita tanto prestigiosa e rimase, per la prima volta forse nella sua vita, confusa e quasi impietrita davanti a tutta quella vociante folla di popolo.
Fortunatamente, Pepè riuscì a portare alla ragione i “devoti” e la manifestazione religiosa poté riprendere il normale tragitto, dirigendosi in Chiesa Madre.
Intanto, la banda del cugino Giovannino Lo Gioco continuava a suonare…mentre il povero Pepè aderiva, suo malgrado, alle pressanti richieste degli improvvisati portatori, che lo invitavano a brindare in onore del Santo.
Donna Rosalia Rubino sposata Furno apparteneva ad una numerosa famiglia, che proveniva da San Fratello.
Sposata due volte; riusciva a fare sentire un’unica famiglia i figli, che le aveva portato il primo marito, quelli che aveva avuto con lui, quelli che le aveva portato il secondo marito e i due, Primo e Turiddu Furno, che aveva avuto con questi.
Tra loro si amavano e rispettavano come se fossero tutti figli dello stesso letto.
Ma i Rubino tutti erano, e sono, persone che sanno amare, sanno rispettare e sanno farsi rispettare.
Era una donna di polso, “arrisurbuta”, risoluta e volitiva, capace di fare “scendere uomini da cavallo”; così era donna Rosalia.
Le regole di comportamento della sua osteria erano poche, ma essenzialmente efficaci e, se qualcuno avesse mai potuto provato a disattenderle, ci avrebbe pensato lei stessa a buttarlo fuori senza molti preamboli.
A scanso di equivoci, aveva posto un cartello con la scritta, “ Benvenuto a voi, che entrate; vino buono qui trovate. Di politica non parlate; prima di uscire pagate”.
In bella vista sul bancone, un vassoio colmo di polpette, una cesta di uova sode, bicchieri e misuratori di vino capovolti e una latta di sarde salate, che gli avventori prima di gustare percuotevano sui tacchi delle scarpe, per spolverarle dal sale.
Era l’unica a Leonforte che non maritasse il suo vino con l’acqua della fonte. Il vino delle sue botti era davvero genuino e buono. Il che non vuol dire che fosse un’ostessa sprovveduta.
Anzi. Conosceva bene i suoi polli e per ciascuno di loro aveva un trattamento particolare.
Con la scusa di lavare per bene le bottiglie che i clienti depositavano sul bancone, perché le riempisse di vino, la furbacchiona lasciava sul loro fondo un dito (a volte di più) di acqua e il gioco era fatto.
Ma il vino appena spillato era davvero sincero, anche perché sapeva bene che, se avesse aggiunto l’acqua nella botte, sarebbe andato a male.
Quella sera, però, il succo dell’uva servito agli avventori era proprio buono in onore di San Francesco di Paola.
Pepè ebbe un’accoglienza davvero cordiale; tutti volevano pagare per lui e tutti lo trattavano come un vecchio amico.
Con Paolino Lo Bue, del quale si diceva che la moglie provvedesse generosamente ad ornargli il capo (“avi chiù corna iddu, ca ‘na carozza di vavaluci,lumache” bisbigliavano), entrò però in maggiore confidenza.
Tanto da sentirsi spinto a raccontargli il disappunto per i costumi eccessivamente disinvolti di Serafina.
Paolino ascoltava tra un bicchiere e l’altro, attentamente evitando ogni commento, ma convincendosi che una parola di conforto a quel nuovo amico avrebbe dovuto pur dirla.
Cosicché, quando Pepè finì di confidargli un’ultima parte del suo dramma si alzò e lo guardò ben dritto negli occhi, cercando di consolarlo, perché solo lui poteva capirlo e perché le donne, tutte le donne, sono fatte così.
Gli porse, quindi, ancora un bicchiere colmo e svuotando il suo d’un fiato, gli sussurrò che se ne facesse una ragione siccome aveva fatto lui,“ curnutu tu, curnutu iu, cu nun è curnutu nun è figghiu di Diu!”