di Salvo La Porta
La notte tra il Santo Natale e Santo Stefano, fu per donna Sarina un vero inferno. Non riusciva a prendere sonno, il letto era diventato un letto di spine e la mente le si affollava di mille angustie.Non voleva che il marito si svegliasse e la cosa peggiore era che non si poteva neppure alzare, per andare a scrutare dal finestrone se suo figlio Nino si ritirasse dal Casino dei Nobili.Quel santo ragazzo! Sino a quell’ora! A bere, a fumare, che le unghia gli erano diventate nere di nicotina e vicino non gli si poteva stare, tanto odorava (sempre suo figlio era e rifuggiva dal pensare che potesse fare un qualsiasi cattivo odore) di alcool e di tabacco.E, inoltre, a giocarsi i soldi che loro si guadagnavano onestamente con la fatica del lavoro.Sino a quell’ora! E almeno, lui era scapolo e solo lei e suo marito si increpavano; ma gli altri non l’avevano una famiglia? Non avevano una moglie, non avevano figli che li aspettassero?Come potevano giocarsi anche le case…anche le mogli si sarebbero giocate per quel maledetto vizio delle carte.Maledetto il vizio, maledetto lo chemin!Più di una volta, le era venuto l’impeto di andare a parlare con il Presidente e più di una volta aveva pensato addirittura di ricorrere ai Carabinieri, perché il Casino dei Nobili si trasformava per le feste natalizie in una vera e propria bisca e le famiglie si “sdirupavano”, annegando nel veleno dell’ira degli uomini viziosi, che dopo avere perduto intere fortune se la “scottavano” con mogli e figli, incolpevoli vittime di quell’infame vergogna.Ma che poteva fare la poveretta? Sempre una donna era ed era sempre la moglie del commendatore Lo Sicco e la mamma di don Silvestre, del quale non avrebbe mai voluto minacciare le legittime aspirazioni.Che rabbia, però. Suo figlio Nino, così bello, così buono, così affascinante ( più bello di Vittorio Gassman era..) come poteva farsi irretire da giocatori senza scrupoli, che quando vincevano intascavano i soldi contanti e, quando la carta non gli girava, perdevano solo lo scatolino di cerini, che avevano gettato sul tavolo per coprire la posta in gioco? Non gli bastava il Casino ad alcuni e, quando il gioco era finito, scappavano per una bisca clandestina di Catania, dove perdevano anche l’anima e dove, se non pagavano subito e in contanti, si annichilivano nel subire le minacce più umilianti, che cominciavano con il vedersi bruciare il ciuffo dei capelli. Fortunatamente, il suo ragazzo non era di quelli; ma sino a quando avrebbe resistito, poviru figghiu! E pregava, pregava, faceva novene a Santa Rita, a San Giuseppe e a tutti i santi del Paradiso si rivolgeva, ma una lacrima non la versava, tutte le inghiottiva, e guai a parlarle male del figlio.Alle cinque del mattino, il commendatore fu pronto per andare come ogni mattina a Milocca; salutò la moglie, che finalmente si era potuta alzare, per preparargli il caffè e, senza cerimonie, uscì dal portoncino di via Collegio, lasciandole intendere di avere capito e che come sempre, “ a megghia parola è chidda ca nun si dici”.
Mentre il commendatore usciva dal portoncino di servizio, Nino rientrava dal portone di Corso Umberto con grande sollievo della mamma, che ringraziava la Madonna per non averlo fatto incontrare con il padre e come se nulla fosse, prendendogli ambo le mani, gli chiedeva premurosamente se volesse una tazza di latte caldo, che riuscì molto gradito.Nella fredda cucina, mamma e figlio rimasero in assoluto silenzio, come se il ragazzo si fosse appena alzato dal letto. ma lei aveva inteso, “ persi… buonu l’appiru ammaccari ( ha perso, lo hanno strapazzato malamente). ”Vero è, “ sulu a mamma ‘u capisci ‘u figghiu mutu”.°°°°°Albeggiava, tuttavia, su una nuova giornata di festa e don Silvestre era stato invitato da Padre Efungidda a celebrare la Messa Solenne delle dieci e mezza nella chiesa di Santo Stefano Protomartire, della quale era parroco. Sprofondò un po’ sulla poltrona e si assopì per una decina di minuti donna Sarina, ma ormai il sonno della notte era stato perso ed era, quindi, smarinata (completamente sveglia).Decise di dedicarsi senza fare rumore, perché nessuno si svegliasse, a qualche faccenda di casa sino alle sette, quando avrebbe ravvivato il fuoco per preparare una buon caffè e portarne una cicaredda a quell’angelo, che ancora dormiva il sonno del giusto in compagnia di Gesù, Giuseppe e Maria. Entrò in camera con passo felpato, si fermò al capezzale del figlio e, dopo averlo osservato con gli occhi lucidi della tenerezza materna, lo carezzò dolcemente sulla fronte e lo sfiorò con un bacio.Silvestre si svegliò e, “ sabbenidica, mamà” le sbadigliò, togliendole la tazzina dalla mano, che si affrettava a baciare.Le chiese, quindi, notizie del papà e del fratello, per sentirsi rispondere che il commendatore era già a Milocca e il fratello dormiva. Dormiva, non c’era bisogno di dire a che ora si fosse ritirato, pensava la donna. Dormiva e basta. Ma Silvestre aveva capito e non chiese altro…. Il sole splendeva ed il cielo era terso e senza una nuvola; il tipico cielo di Leonforte nelle giornate tiepide di Dicembre, erano già le otto e mezza del mattino e il paese sembrava ancora addormentato.Silvestre decise di uscire senza indugio e si mise a percorrere il Corso a passo lento, tra uno scambio di auguri ed un saluto, si ritrovò nella farmacia che sorgeva, e sorge ancora oggi,nei pressi della piazza Branciforti, a due passi dalla Chiesa Madre.Il proprietario era il farmacista Mazza, persona molto dabbene, garbata e dalla conversazione amabile e interessante.
La frequentazione del professionista gli era stata decisamente sconsigliata da alcuni dei suoi confratelli, poiché il dottore Mazza non faceva mistero di essere affiliato alla massoneria e i massoni erano scomunicati.Ma don Silvestre non è che tenesse in gran conto i consigli di quei preti; li considerava alcuni ignoranti, altri sciocchi, altri ancora ipocriti, invidiosi e tragidiatura, ovverosia spudoratamente complottisti. Solo di pochi si fidava e aveva rispetto, tra questi Padre Efungidda e Padre Varano. Mentre, bisogna dirlo, verso i Padri Cappuccini nutriva il massimo della stima e della simpatia.E, in fin dei conti, il farmacista anche se non si vedeva mai in chiesa permetteva alla moglie e alle due figlie di partecipare assiduamente alle adunanze e alle funzioni religiose e conduceva una vita irreprensibile, sempre pronto a venire in aiuto di chi ne avesse bisogno. Sempre meglio di certuni che…amanu a Diu e futtunu ‘u prossimu. Con lui Silvestre si soffermava volentieri a chiacchierare e doveva riconoscere che quell’uomo era estremamente saggio e profondo.Quella mattina, complice l’aria natalizia, il colloquio fu più cordiale del solito ed i due si scambiarono diverse opinioni sul concetto di felicità, meravigliandosi entrambi come le loro idee ( e qui non potevano fare a mano di ridere) cominciassero pericolosamente a coincidere.Si era fatto proprio tardi e la conversazione dovette essere interrotta sul più bello. I due uomini si scambiarono ancora gli auguri e l’Arciptrete ff. con due sgambettate percorse la Cuticchiata di via Garibaldi ed in men che non si dica fu sul sagrato della chiesa di Santo Stefano Protomartire, accolto dal parroco e dai parrocchiani più in vista, che lo aspettavano per la celebrazione della Messa.
Nell’omelia don Silvestre fu veramente brillante; più brillante del solito, anche se dovette ammettere con se stesso di avere praticamente proclamato un concetto sulla felicità che, pari pari, aveva preso in prestito dal farmacista Mazza e del quale si era prudentemente astenuto di riconoscere la paternità.“ Cari fratelli e care sorelle”, aveva detto, “ credete voi che il Signore nella Sua infinita bontà ci abbia creato a Sua immagine e somiglianza per il gusto di farci soffrire? No, carissimi, il Signore ci ha creato per essere felici e noi abbiamo il diritto e il dovere di cercarla la nostra felicità. Perché solo se siamo veramente felici possiamo fare la felicità di quelli che ci sono vicini, del prossimo, di Dio, che da Padre amoroso è felice se i figli sono felici”. La gente non era molto abituata a sentire parole come quelle e lo stesso Padre Efungidda rimase molto perplesso; figuriamoci, poi, se ne avesse scoperto l’autenticità della fonte! Ma andava bene così.
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Mentre Silvestre sorbiva la sua solita cicaredda pomeridiana di caffè in compagnia dei suoi genitori, Serafina annunciò la visita di Padre Varano.Le visite di quel prete erano sempre molto gradite in casa Lo Sicco, perché il brav’uomo voleva sinceramente bene alla famiglia e perché non era un ostacolo alle legittime aspirazioni di Silvestre.Don Varano era riuscito a sapere, per mezzo di un confratello di Messina, che aveva un nipote che studiava all’Almo Collegio Crapanica di Roma, che il Rettore Magnifico di quel Collegio era morto.In sé, la notizia poteva non significare nulla; tuttavia, non era da trascurare il fatto che l’Arciprete di Leonforte in carica da un bel po’ di tempo si trovava a Roma, per coadiuvare quell’alto prelato, del quale certamente avrebbe preso il posto.“Parabula significa (quindi)? fece Varano. “ tradantula ballarina (la tarantola balla e la conseguenza è ovvia)”, risposero in coro gli altri.A Leonforte, la sede arcipretale era definitivamente vacante e, prima che i soliti tragidiatura si muovessero, bisognava avvicinare il Vescovo.
💬 fatto. Il commendatore chiamò il figlio Nino e si decise che subito questi partisse per Nicosia e invitasse Sua Eccellenza per il giorno di Capodanno; lui sapeva quali argomenti trovare per convincerlo ad accettare l’invito. Ma…. acqua in bocca. Dall’indomani, la cucina di via Collegio si trasformò nel campo di battaglia delle donne di casa, tutte agli ordini di donna Sarina. Ma anche gli uomini non erano esenti dal lavoro. Anzi, al solito per loro le incombenze erano più noiose e pesanti.Turuzzu andava e veniva da Milocca e depositava sul lungo tavolo di marmo il meglio di quella terra e Pepè si dava da fare, per mettere ordine e rendere più agevole il lavoro delle donne. Per ultimi arrivarono polli e galline con il collo già tirato e il sangue ben coagulato.Turuzzu con un malizioso sospiro li gettò sul tavolo e con lo sguardo rivolto a Serafina cominciò a palleggiare la testa del gallo; quella sembrava che non aspettasse altro e lasciò subito di pulire la verdura, per correre a togliergli dalle mani la testa dell’animale e palleggiarla lei a sua volta e con la malizia tipica delle donne diceva e non diceva…ma faceva capire.Intanto, Pepè si alzava per andare a prendere l’acqua che era stata messa a bollire, per spennare il pollame.Corse a prelevare il gallo dalle mani di Serafina, che gli lasciò cadere la testa penzoloni ed andò ad immergerlo senza dire parola. Mentre spennava, però, una canzoncina gli cominciò a ronzare dentro le orecchie. Una canzoncina, che gli cantava la mamma e che lui inconsapevolmente aveva iniziato a canticchiare, “ah, chi bella vita ca’ fazzu…mangiu, vivu e nun mi strapazzu e mi nni futtu si sugnu curnutu… basta ca’ mangiu e vaiu vistutu(che bella vita faccio…mangio e bevo senza strapazzarmi e me ne frego se ho le corna…l’importante è mangiare e vestire bene)”.