Come facesse quello spilungone del Cancelliere del Vescovo a sapere tutto quello che succedeva in Diocesi era rimasto per tutti un mistero; fatto sta che ( pur non essendosi ancora sparsa la notizia che la signorina Petronilla ed il di lei fratello Parroco erano afflitti da una tremenda crisi iperglicemica) lui era già corso all’Ospedale Umberto I di Enna a chiedere al famoso diabetologo, che lì prestava servizio, di precipitarsi ad Assoro, per dare immediato soccorso ai due, che continuavano a soffrire le pene del Purgatorio.

“ Anime sante, anime del Purgatorio, pregate Dio per me, che io pregherò per voi, perché vi dia la gloria del Santo Paradiso”, non cessava di implorare il povero prete, mentre Petronilla era rimasta abbandonata sul suo giaciglio, quasi priva di conoscenza.

Ma che davvero sarebbe dovuto morire in un modo così stupido, solo per essersi lasciato sedurre una volta dal “vizio capitale della gola”? Che si facesse, tuttavia, la volontà di Dio; lui era pronto!

Ma prima, che gli fosse concesso il perdono dei peccati, dei quali si era già pentito e abbondantemente pentito; che avesse il tempo di mandare a chiamare il suo confessore Cappuccino e ricevere l’assoluzione, magari “in articulo mortis”, e sarebbe stato pronto al gran passo. Se voleva, poi, il Signore dargli una specie di proroga e concedergli il benefizio di un’altra opportunità, perché Gli potesse dimostrare fedeltà e obbedienza…in fondo, che fretta c’era?

Mentre si lasciava andare a queste sante e dolorose riflessioni, consegnandosi anima e corpo alla volontà del Padre, gli sovvenne che nella camera accanto una donna languiva in un letto di spine, Petronilla.

Si vergognò un poco di quella dimenticanza; per cui, si

 

affrettò, tra un lamento e l’altro, a presentare con un fil di voce al Padreterno una supplica in favore di quella poveretta,

Signuruzzu, Vi arraccumannu…macari a me’ suoru, Signore vi raccomando… anche mia sorella”!

All’improvviso si sentì scampanellare la campanella della porta della canonica ed alla domestica precipitatasi ad andare ad aprire si presentarono, come gli Arcangeli Gabriele e Raffaele, il Cancelliere ed il medico diabetologo, che senza neppure fermarsi a parlare con la donna, si precipitarono come quella avrebbe poi riferito al Vescovo, al capezzolo dei due fratelli, che per la grazia di Dio e per le immediate cure del medico, si ripresero presto; tanto presto, da sentirsi dopo poche ore un certo languore e chiedere alla donna che gli preparasse qualcosa…ma qualcosa di “leggiero”, considerata la disavventura dalla quale erano appena usciti.

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La signora Sarina, che non aveva notizia alcuna circa l’evoluzione del malessere dei due assorini, non ce la fece ad aspettare la sera per incontrare Padre Varano e si fece accompagnare di gran carriera al convento dei Cappuccini, dove senza nessun indugio accusò la sua leggerezza al Padre Bonaventura, chiedendogli di essere assolta e promettendo a sé stessa e al suo confessore che non solo avrebbe rimediato, ma che per l’avvenire si sarebbe conformata di più al dettato evangelico dell’amore fraterno, “amatevi gli uni con gli altri”.

Quando fu di ritorno a Milocca, trovò l’aia piena di gente. Marcello Rao, si era già inginocchiato a baciare l’anello del Vescovo e al suo apparire si congedò, ringraziandola per l’accoglienza, che era stata riservata a lui ed ai suoi allievi, e promettendo che sarebbe tornato con la moglie, i figli e persino con il cane Dago, per rimanere qualche giorno.

Oltre quelli di famiglia, la signora Lo Sicco notò un gruppetto di uomini, dal quale il Commendatore non appena vide apparire la moglie non esitò a distaccarsi, riuscendo a stento a dissimulare un respiro di sollievo, quasi volesse dire, “Ah, menu

 

mali ca’ arrivau Sarina… arrifriscaiu!”

Gli uomini, accalorati com’erano nella conversazione, non si accorsero neppure dell’arrivo della padrona di casa e continuarono a parlare tra di loro della bellezza del Creato e dell’ingratitudine, spesso dimostrata nei confronti del Creatore.

A tenere banco, seppure con il solito garbo, era il farmacista Mazza, quell’inguaribile e inspiegabile massone, che stigmatizzava il malvezzo dei cattolici di piangersi sempre addosso, lamentandosi che le cose non vanno mai per il verso che loro vorrebbero, che le condizioni di salute sono spesso precarie, che bisogna faticare più del giusto solo per tirare a campare e che, insomma, si è costretti a vivere in una “valle di lacrime”.

Ma com’è mai possibile che mai, dico mai, sento che qualcuno entra in Chiesa, per ringraziare il Creatore per quello che gli ha gratuitamente donato? Mai siete contenti? Non vi accorgete mai della bellezza di un cielo terso, della ricchezza della salute, della gioia dell’amore della famiglia? Solo e sempre chiedere? Mai siete contenti? Mai il lauzu, la lode di ringraziamento, per quello che avete? Sempre a piangere, sempri a cutturiari, a molestare Dio, la Madonna e i Santi con le vostre continue, a volte, assurde richieste?”

Silvestre, che era abituato ai ragionamenti sottili dell’amico, obiettava timidamente che, in fondo, gli uomini figli sono; figli che hanno le loro necessità ( e perché no?) i loro capricci e se non chiedono al Padre, a chi mai dovrebbero chiedere?

Salvo Ganà e Gennaro, invece, concordavano in tutto e per tutto con il farmacista ma, per non esasperare i toni, preferivano non intervenire, lasciando però intendere come la pensassero.

Convennero tutti, infine, (prendendo in prestito il pensiero di Einstein) che “ ci sono due modi di vivere la vita, uno è pensare che niente è un miracolo; l’altro è pensare che che ogni cosa sia un miracolo”.

C’era con loro un uomo sulla cinquantina, che

 

sembrava fregarsene altissimamente di quello che si diceva in quell’estemporaneo simposio, era il professor Giovanni Pilaro, che insieme alla sorella Leonilde ( un donnone alto e robusto come un armadio e dalla bellezza del tipo di Rosina Anselmi, l’indimenticabile compagna di scena dell’indimenticabile Angelo Musco ), era approdato a Milocca in compagnia del dottore Mazza.

Per tutto il tempo, il “professore” Pilaro era rimasto a sgranocchiare noccioline americane, innaffiandole con il vino di Milocca diluito con la gazzosa, ed alternandole sapientemente con le noci, le nocciole e le mandorle “atturrate”, abbrustolite, che trionfavano sul tavolo di marmo.

Pilaro era del tipo “unni mi chiovi mi sciddica, l’acqua che mi piove addosso mi scivola” ed era arrivato a Leonforte non si sa come, non si sa quando, piantando le tende a casa del notaio Adorno, alla sommità della scalinata Musumeci di piazza Margherita.

Osservandolo bene, Gennaro non poteva fare a meno di associarlo all’asino bigio di carducciana memoria, tutto intento a rosicchiare il suo “cardo rosso e turchino”, incurante di tutto quanto succedeva intorno a lui.

Diceva Pilaro di essere professore ordinario, non si è mai saputo bene di quale materia, presso l’Università degli Studi di Palermo e vantava ma, alla luce dei fatti, millantava amicizie nei gangli più importanti e delicati dell’economia, della pubblica amministrazione e, addirittura, del Governo.

La signora Sarina non lo aveva incontrato che appena due volte; ma tanto le era bastato per farsi un quadro chiaro del personaggio e di quell’armadio di sorella, sempre attaccata a lui.

Sarina non la sopportava proprio Leonilda, “ oh, l’addumannuna, accattona.”

Una volta la cipolla, una volta il prezzemolo, un’altra l’accia, il sedano, le uova. Sempre qualcosa voleva.

Il “Professore” apparteneva al “ Fronte dell’Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini, un movimento molto simile a

 

quello dei “ Cinque Stelle” di oggi, e si era dato ad organizzare un bel gruppo al quale avevano aderito molti giovani studenti liceali e universitari, ai quali aveva fatto intendere di essere molto ammanicato nel mondo della scuola in generale e in quello accademico in particolare.

Capitò così che Ninicchio Mancuso, dovendo sostenere un esame particolarmente difficile, presso la sua Facoltà Universitaria di Palermo, pensò bene di rivolgersi a lui per una spintarella e, poiché è risaputo che “ u rialu è maaru, il regalo fa magie”, seppure in quei tempi di ristrettezza, reputò utile fare precedere la richiesta da un “cadeau”, che lui stesso gli avrebbe recapitato a casa.

Si caricò, quindi, di una latta da cinque litri di olio extravergine d’oliva, quello del suo uliveto, e si inerpicò per la scalinata di via Musumeci, alla sommità della quale, come se lo aspettasse, trovò ad attenderlo il viso giocondo e rubicondo di Leonilde.

Signuri’”, fece con il fiatone, “mi pirmisi di purtarici stu presenti o’ Prufissuri, si nun c’è offisa…”

“ Ma quale offesa? Grazie ”, gli rispose la donna con affettata affabilità, “ aspetta ca ti svacantu a lanna, ti svuoto subito la latta” e fece per entrare in casa.

Per una forma di delicatezza, Ninicchio obiettò che poteva tenersela la latta; ma quella prontamente ribatté, “ no, no, figghiu, e apo’ unni u metti l’autru ca’ a purtari? Dove lo metti poi l’altro olio, che dovrai portare?”