di Irene Varveri Nicoletti

Quando Lev Tolstoj pubblicò nel 1869 Guerra e pace, consegnò al mondo non soltanto un romanzo: offrì un lessico morale per comprendere l’abisso della guerra e la fragile speranza della pace. I suoi protagonisti non sono soltanto generali e zar, ma donne, contadini, soldati semplici: i volti anonimi che subiscono le conseguenze delle decisioni prese altrove. La guerra, nelle sue pagine, non è una gloria nazionale ma la distruzione silenziosa della vita quotidiana.

Emblematico l’episodio di Pierre Bezukhov, improvvisamente travolto dal fragore di Borodino e poi trascinato prigioniero dai francesi. In quell’esperienza estrema, Pierre scopre l’essenza crudele del conflitto: la guerra spoglia ogni individuo di ruolo e di dignità, riducendolo a un corpo inerme, consegnato all’arbitrio dei più forti. È un’esperienza che oggi, purtroppo, possiamo ritrovare nelle cronache.

A Gaza, decine di migliaia di civili vedono la propria esistenza dissolversi tra macerie, ospedali devastati e vite spezzate. E come Pierre, anche chi tenta di resistere senza armi conosce l’umiliazione inferta dalla bieca logica militare. È accaduto ai volontari della Global Sumud Flotilla: una trentina di imbarcazioni cariche di aiuti, più di cinquecento attivisti partiti per portare pane e medicine. Sono stati fermati in acque internazionali, oltre cento di loro arrestati e trasferiti nella prigione di Ketziot, nel deserto del Negev. Le testimonianze riferiscono di trattamenti barbari: mani legate, ginocchia piegate a terra, privazione di sonno.

Tolstoj ci ammoniva che la guerra non distingue: travolge soldati e civili, nemici e innocenti. La sua forza devastante consiste proprio nel cancellare le differenze, nell’abbattere l’umanità a livello più elementare. Gaza oggi, con la sua interminabile lista di vittime, non fa che confermare quella verità scritta un secolo e mezzo fa.

E allora il titolo di quel romanzo, Guerra e pace, resta oggi una parola necessaria. Necessaria perché ci ricorda che la pace non è un concetto astratto, ma un’urgenza concreta; non un lusso retorico, ma l’unica alternativa alla disumanizzazione. Ogni volta che un civile cade sotto le bombe, ogni volta che un volontario viene arrestato per aver portato acqua o medicinali, comprendiamo che la guerra è sempre e soltanto la sconfitta di tutti.

La pace, oggi più che mai, non è letteratura: è la sola parola che ci resta per salvare l’umano.