di Irene Varveri Nicoletti

Già qualche giorno fa, a Bari sul palco del Teatro Team, Matteo Salvini aveva messo in scena il suo consueto spettacolo politico, un ibrido tra conferenza stampa e cabaret morale. L’Italia, a sentire il vicepremier, non è piegata dal debito pubblico, da un sistema sanitario allo stremo o da salari fermi da vent’anni: il vero fronte d’emergenza sarebbe il “tessuto valoriale” nazionale. Pare si tratti di una stoffa talmente fragile da strapparsi all’arrivo di qualche straniero.

Chiffon? Interessante trovare una risposta.

Al centro del discorso, il nuovo mantra leghista: “remigrazione”. Una parola che, di primoacchito, sembrerebbe il nome di un integratore per favorire la regolarità intestinale. In realtà, è l’ennesimo eufemismo politico che tenta di tingere di ordine ciò che è, sostanzialmente, la proposta di un reimpatrio coatto su larga scala. Come se i migranti fossero pacchi postali smistati da un centro logistico a cui basta attaccare un’etichetta di indirizzo errato per rispedirli al mittente,

Salvini chiede poi che “chi arriva rispetti cultura, religione e Costituzione”, ebbene sì! Meglio conoscerla prima dello sbarco, magari seguendo un corso acceleratoverrebbe da dire e, per chi non lo fa, propone una soluzione che è già un tormentone: “cristianamente e generosamente fuori dalle palle”. Un ossimoro che mette insieme la carità evangelica e il linguaggio da battibecco di cortile. Al vicepremier va comunque il merito di aver inventato una forma di teologia faidate in cui la misericordia si misura con i calci e con l’aggressione verbale.

Più verosimilmente pare un insulto e una rivisitazione grottesca della fede e della carità, pilastri del messaggio evangelico, che dovrebbe indignare ogni cristianoche vede svuotato e depauperato ciò in cui crede, per giustificare il rifiuto. La retorica dell’emergenza culturale, poi, tocca il suo picco quando entra in scena la questione del presepe. L’allarme riguarda il rischio che qualcuno “sfratti il Bambin Gesù dalla capanna”! Così, un simbolo di pace universale diventa una bandiera identitaria, usata per tracciare confini di esclusione più che per aprire dialoghi, peraltro vero cuore del messaggio cristiano.

A completare il quadro interviene il ministro dell’Interno Piantedosi, che annuncia l’ennesimo decreto sicurezza, presentato come una rifinitura delle norme. Una definizione che suona come una involontaria ammissione sul limite dei precedenti provvedimenti, presentati già come definitivi ma in realtà provvisori e incompleti. Il copione, pur rodato, resta sempre lo stesso: la narrazione di un nemico semplice da additare, abilmente spacciato per l’unica vera risposta ai mali della nazione.