di Irene Varveri Nicoletti
Nel dibattito sulla violenza di genere, che ogni 25 novembre si rinnova con dati, analisi e politiche urgenti, esiste un capitolo spesso trascurato: quello della rappresentazione del corpo femminile nello spettacolo. Un ambito che, pur lontano dalle aule dei tribunali e dalle emergenze sociali, ha contribuito a ridisegnare la percezione pubblica della donna, aprendo spazi di autonomia prima impensabili. Il piccolo schermo ha funzionato spesso come specchio deformante delle aspettative sociali, ma in alcuni momenti è stato anche il suo contrario: un grimaldello capace di far saltare vecchi lucchetti culturali.
La recente scomparsa di Alice ed Ellen Kessler, così come quella recentissima di Ornella Vanoni ha riportato alla luce il senso delle loro percorso: un’avanguardia fatta di scelte, di gesti e di libertà anticipate rispetto al loro tempo. Le gambe delle gemelle, immortalate da inquadrature che oggi sembrano innocue ma che all’epoca furono uno terremoto, segnarono il primo cedimento del pudore imposto. Non mostrarono il corpo per compiacere: lo portarono in scena come gesto professionale, preciso e rigoroso. In un’Italia ancora imprigionata da un pudore imposto, quella scelta fu una dichiarazione: il corpo lo governiamo noi.
A seguire, la vicenda di Mina segnò un punto di svolta sul fronte della libertà personale. La sua estromissione dalla Rai dopo una relazione considerata scandalosa rivelò il tentativo di disciplinare moralmente la figura femminile attraverso la visibilità mediatica. Il suo ritorno in scena, e ancor più il successivo ritiro volontario, ribaltarono quella logica: decidere quando esporsi e quando sottrarsi diventa parte integrante dell’autodeterminazione.
Negli anni Settanta, la tel evisione conobbe una nuova fase di emancipazione con Raffaella Carrà. Il celebre ombelico di Canzonissima 1970 segnò lo sdoganamento del corpo come espressione libera, non come provocazione. Carrà offrì alle donne un modello di femminilità non colpevole, gioiosa, padrona del proprio fascino: un cambio di paradigma travestito da varietà. Parallelamente, Heather Parisi portò in scena una fisicità diversa: atletica, tecnica, performativa. La sua spaccata non fu soltanto un virtuosismo, ma l’affermazione di un corpo potente, non contenibile nelle tradizionali categorie della grazia femminile. Anche questo contribuì a modificare l’immaginario collettivo.
All’interno dello stesso panorama, la figura di Stefania Rotolo resta una testimonianza breve ma significativa. Volto amato degli anni Settanta, rappresentò una femminilità moderna, meno codificata, più spontanea ed energica. La sua immagine, ricordata ancora oggi da chi visse quell’epoca, racconta un’ulteriore sfumatura della lotta per la visibilità consapevole e non decorativa. Questo excursus trova una risonanza più vicina in Ornella Vanoni, recentemente scomparsa. La sua presenza pubblica, sempre franca e diretta, ha attraversato decenni: ha raccontato amore, fragilità e perfino vecchiaia con una schiettezza rara, rifiutando l’idea che l’età dovesse tradursi in ritirata. Ha offerto un contraltare complementare alla scelta di silenzio di Mina. Due gesti opposti ma entrambi nati dallo stesso principio: decidere in libertà come essere donna nel mondo.
Eppure, sarebbe un errore fermarsi alle icone. Perché se queste artiste hanno aperto immaginari nuovi, la vera infrastruttura del cambiamento l’hanno edificata altre donne: quelle del quotidiano senza luci, senza applausi e senza memoria pubblica. La loro rivoluzione è stata lenta, invisibile, ma decisiva. Senza di esse, la libertà scenica delle icone non sarebbe mai diventata libertà reale per le altre.
Oggi il 25 novembre ci impone di riconoscere proprio questo: la violenza di genere non nasce dal singolo gesto criminale, ma da un ecosistema culturale che per secoli ha negato alle donne il controllo del proprio corpo e della propria vita. Ogni conquista, dalla scelta di mostrarsi alla scelta di sparire, dalla libertà di danzare alla libertà di dissentire, entra dentro questa stessa battaglia. E allora ricordare le Kessler, Mina, Carrà, Parisi, Rotolo e ora Vanoni non significa rievocare un passato di lustrini: significa riconoscere i fronti in cui la libertà si è fatta strada. E ricordare le donne senza nome significa la base concreta su cui quelle conquiste si sono rese possibili.
Il corpo delle donne non è mai stato solo un dettaglio estetico: è stato ed è ancora un campo di potere, di controllo, di giudizio. La sfida del presente è trasformarlo in ciò che dovrebbe essere da sempre: un territorio inviolabile, personale, intangibile. Un luogo di decisione, non di imposizione.



