Leonforte – “Da due anni crediamo fermamente nella vocazione teatrale del territorio, per questo quello di oggi è un appuntamento importante”. Con queste parole, Francesco Sinatra ha salutato il momento finale della residenza teatrale targata Premio Città di Leonforte.
Un intenso lavoro di “drammaturgia aperta” – curato dal regista Giorgio Zorcù e l’attrice Sara Donzelli dell’Accademia Mutamenti di Grosseto – ha creato un coro che è riflesso di identità, gesti rituali e canti unici. Lo studio scenico dello spettacolo non poteva che condurre qui, nella terra che ha dato origine al mito di Kore. Ospite d’eccezione la nota drammaturga siciliana Lina Prosa, autrice di “Kkore. Canto accorato per chi ha un cuore”, su cui gli artisti hanno lavorato per il nuovo spettacolo.
“Ciò che mi ha sempre affascinato è il mito. Tutto ciò che va indietro nel tempo, acquisisce una maggiore rilevanza contemporanea”. Così Lina Prosa ha iniziato l’interessante dibattito, demistificando la convinzione secondo cui tutto ciò che viviamo sia un contemporaneo senza radici. “Siamo la punta dell’iceberg, con alle spalle un percorso lungo ed antico. A noi spetta guardare al futuro e possiamo farlo solo attraverso questa memoria atavica, dettata dal nostro modo di essere corpo”. Questo il filo conduttore, il corpo, che al pari di un tempio non deve essere profanato cancellando la memoria del tempo. Il corpo chiamato a trasformare il reale in una partitura poetica.
La struttura di Kkore si suddivide in tre parti, equamente armonizzate. La prima è quella che rende il senso della doppia k: il doppio femminile si riverbera in un dialogo tra Demetra e Kore, in cui la madre vuole convincere la figlia a indossare l’abito bianco e prepararsi alle nozze. Il dialogo vive di contrapposizione tra modelli culturali diversi. La seconda parte è un monologo, la madre cerca la figlia e sfida la realtà discendendo negli Inferi; la terza, infine, è la comunità, il mondo che si muove.
Kore è un modo di essere, di esserci. Kore intesa come ciclicità, quel rassicurante tempo della natura che ci parla di vita. A raccontare del mito si immagina tutta la Sicilia straordinaria, che ha un rapporto poetico con la natura e con l’universo, fatto di sogno. La diade Demetra/Kore è l’archetipo che si immette nella ciclicità. La simbiosi tra madre e figlia, il cui modello va al di là della storia e del condizionamento sociale, per rientrare in quella memoria antica fino a sfiorarne il mistero.
La doppia k è da intendere anche come doppia lettura: leggere il mito in prospettiva contemporanea aiuta a comprendere che il grande assente di oggi, forse, è il rischio. Si parla di migranti, per meglio definire quale tipo di rischio abbiamo perso. Andare incontro all’ignoto, a costo della vita. Andare comunque. L’energia femminile si esprime attraverso il conflitto, quale motore della vita, che deve restare irrisolto. Anche questo elemento lascia poca traccia di sé nella coscienza contemporanea. “La donna è il maggiore ostaggio di quel consumismo che offusca il dialogo con la morte”,  ondeggiando tra piacere e voluttà a tratti dopanti.
Nel lungo percorso si è persa traccia del femmineo mitologico, eppure ci sono dei punti di resistenza, delle zone animiche in cui intatta risiede quella memoria atavica che ci ricongiunge al mito. “Quando si toccano gli affetti di una donna, ad esempio”, e le parole di Lina Prosa accendono l’immagine della disperata risolutezza di una madre che vuole ancora la figlia con sé, tra i vivi.
Ecco, dunque, l’assoluta contemporaneità del mito: attraversare, rischiando, e lottare per appropriarsi di una rinnovata consapevolezza di sé.
Il teatro ha un ruolo fondamentale nel recupero di questa dimensione. Non è un caso se le Amazzoni, le Troiane, le Supplici, sono tutte comunità femminili che si sono rivoltate contro qualcuno o qualcosa. Non è neanche un caso che sia stato proprio il teatro a farle arrivare a noi. Su questo, la Prosa, è categorica: serve più teatro, ovunque.  
Alessandra Maria