“Alessio, 40 anni, chiede aiuto a uno psicoterapeuta per sentire qualcosa di più autentico in se stesso, vuole liberarsi da quello che lui riconosce come schiavitù dal lavoro. Quando è in seduta parla solo del suo lavoro, delle preoccupazioni per i suoi clienti. Non si rilassa e appare contratto, deve controllare ogni espressione del suo psicoterapeuta. La maggior parte delle volte Alessio salta le sedute perché comunica di rimanere bloccato in riunioni che non gli permettono di essere disponibile per il percorso psicologico intrapreso. Dal comportamento sembrerebbe che Alessio non è autenticamente interessato a uscire dalla sua schiavitù, pur rendendosi conto che il suo matrimonio sta andando a rotoli: la moglie comincia a odiarlo, perché non sa mai mantenere le sue promesse(esempio: andare al teatro, fare un viaggio di piacere) non collabora e non partecipa in modo attivo alla crescita dei figli, anche loro cominciano a provare emozioni negative per la sua assenza fisica ed emotiva.”
Da questo caso sopra citato si può notare che nelle abitudini della quotidianità si nascondono piccole e grandi dipendenze, che appesantiscono le relazioni sociali e impediscono di vivere pienamente. Nello scenario delle dipendenze patologiche la work addiction, o dipendenza da lavoro, è una tra le più attuali forme di dipendenza senza uso di sostanze, viene anche denominata “workaholismo” o “ubriaco da lavoro”. È stata introdotta nel 1971 da Oates, per indicare il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, così da rientrare nel novero delle New Addiction assieme alla Internet Addiction, Shopping Compulsivo e tante altre dipendenze. Infatti l’autore asserisce:
“L’attività lavorativa diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità. Nonostante si tratti di un tema dibattuto da diversi anni, la workaholism, per la sua stessa correlazione con un’attività quotidiana, quella lavorativa, indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe non essere riconosciuta dalla società, al momento, come un disagio patologico (Oates, 1971)”.
Questo fenomeno in Italia non risulta tanto conosciuto, ma ad esempio in altri paesi come il Giappone è conosciuto come “Karoshi” (morte per sfrenatezza di lavoro). Sfrenatezza di ore di lavoro e condizioni lavorative stressanti sono causa di decessi a seguito infarti cardiaci e ischemici, a questo fenomeno si aggrega il “Karo-jisatsu”, che sta ad indicare il suicidio al quale ricorrono lavoratori che soffrono di depressione correlata all’accesso di lavoro. (Akari, Iwasaki, 2005; Kanai 2006).
Quali sono i sintomi più ricorrenti?
I sintomi più frequenti come ci ricorda nel 2010 Castiello d’Antonio, sono:
Pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro come ad esempio timore di perdere il lavoro;
Sbalzi di umore, facile irritabilità, impoverimento emotivo;
Ansia e panico sono i sintomi di astinenza in assenza di lavoro;
Abuso di sostanze stimolanti come ad esempio la caffeina;
Consapevolmente e volontariamente si dedica al lavoro con un tempo eccessivo ad esempio si lavora superando le 12 ore giornaliere, inclusi i fine settimana e vacanze, ciò non dipende da esigenze economiche o da richieste lavorative;
Disturbi psicosomatici, aumento di peso, irritabilità conseguenti dalla diminuzione di ore di sonno notturno;
Nel 1992 due ricercatori Spence e Robbins crearono il concetto di triade workaholic, che è contraddistinto da:
Soddisfazione tratta dal lavoro
Fervore nel lavoro
Incitamento nel lavoro
A seguire furono individuati tre profili di soggetti maniaci dal lavoro:
I dipendenti da lavoro: i soggetti mostravano un elevato impegno e incentivo nel lavoro ma un basso appagamento nel lavorare;
I dipendenti entusiasti: i soggetti mostravano un elevato impegno e molta soddisfazione ma poca motivazione;
Gli entusiasti del lavoro: i soggetti mostravano marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.
Con il tempo i tre profili si dimostrarono rigidi e ossessivi, spesso soggetti ad elevate quote di stress ed ansia associati a sintomi fisici.
In seguito, nel 1997, Scott propose una definizione di “Workaholism” ancora oggi riconosciuta e condivisa. Distinse tre tipologie di comportamento presenti nella persona dipendente al lavoro:
Passa la maggior parte del proprio tempo in attività lavorative, sviluppando dei deficit nella sfera sociale, nei rapporti interpersonali e nel proprio stato di salute;
Pensare in modo persistente a possibili soluzioni per il lavoro, anche quando non si lavora;
Lavorare in eccesso a prescindere delle richieste o necessità finanziarie e organizzative;
I tre stili individuati sono:
Compulsivo-dipendete: collegato positivamente ad ansia, stress, problemi psicofisici, e negativamente a prestazioni lavorative e a livelli di appagamento personale e lavorativo;
Perfezionista: collegato positivamente ad elevati livelli di stress, problemi psicofisici, relazioni interpersonali avverse, debole appagamento lavorativo, insufficiente performance e disimpegno nel lavoro;
Orientato al successo: positivamente collegato a buona salute psicofisica, compiacimento lavorativo e personale, atteggiamenti socialmente desiderabili.
Nel 2008 Bakker e Schaufeli definirono che la combinazione di due dimensioni “lavorare eccessivamente” e “lavorare compulsivamente” davano alla luce la workaholism. Secondo i due autori il lavorare eccessivamente indica che i fanatici del lavoro dedicano una quantità eccessiva del loro tempo ed energia alle attività lavorative superando le necessità reali delle richieste organizzative o economiche. Mentre la dimensione cognitiva è caratterizzata dalla dimensione del lavorare compulsivamente, i fanatici del lavoro sono ossessionati dalla loro professione e pensano in modo permanente solo al lavoro, anche quando non stanno lavorano. Dunque i maniaci del lavoro spinti da un impulso interno tendono a lavorare di più di quanto sia necessario.
Come ricorda Robinson nel 1998, questi soggetti celano dietro all’eccessiva mole di lavoro e la spasmodica ricerca di elevati standard professionali, una personalità incline all’atteggiamento compulsivo finalizzato ad evitare, nascondere stati emotivi sgradevoli come rabbia e tristezza, derivanti da credenze associate ad una bassa autostima, intolleranza all’incertezza o difficoltà nelle relazioni interpersonali. Esperienze di vergogna o colpa associati al senso di inadeguatezza, pertanto saranno gestiti con atteggiamenti controllanti, perfezionisti e iperattività. La credenza di essere più capaci di gestire compiti lavorativi piuttosto che attività extralavorative può trascinare i dipendenti a dedicare tutto il loro tempo a disposizione al lavoro con l’obiettivo di evitare tutte le attività nelle quali credono di essere meno abili.
Cosa occorre fare quando si comprende di essere dipendente dal lavoro?
In linea con quanto appena sopra descritto, la workaholism può svilupparsi quando i fanatici del lavoro percepiscono che il lavorare oltre l’orario di lavoro a casa, nei fine settimana durante le vacanze, è considerata una condizione indispensabile per il successo e l’avanzamento di carriera, ma questa ricerca continua di mantenere un altissimo standard di lavoro per il soggetto inizialmente può fungere da funzione “salvagente”, che permette di stare a galla nelle acque agitate della vita, ma alla fine si stringe tanto da trasformarsi in una catena, che fa affondare inesorabilmente in un mare di paure e insoddisfazioni. Un primo passo per liberarsi dalle abitudine ossessive e comprendersi, ciò chiede impegno, tempo e sofferenza ma porta sempre a una rinascita. Una volta accettato la propria condizione di workaholic, il primo passo è l’auto-aiuto, partendo dal presupposto che si abbia la motivazione per uscire fuori dalla situazione di dipendenza dal lavoro. Senza eccedere con i propositi di cambiamento, partire da un progetto tagliato sulle reali possibilità personali, inoltre chiedere supporto a un gruppo di auto-aiuto associato a un intervento psicologico di gruppo o individuale.
Bibliografia:
Araki, S., & Iwasaki, K. (2005). Death due to overwork (Karoshi): Causation, health service, and life expectancy of Japanese males. Japan Medical Association Journal, 48, 92-98.
Bakker, A. B., & Schaufeli, W. B. (2008). Positive organizational behavior: Engaged employees in flourishing organizations. Journal of Organizational Behavior, 29, 147-154.
Castiello d’Antonio, A. (2010). Malati di lavoro. Cos’è e come si manifesta il Workaholism. Roma: Cooper
Oates W. (1971) Confessions of a workaholic: the facts about work addiction, New York: World.
Robinson B.E. (1998) Chained to the desk, New York: New York Unicersity Press.
Scott K.S, Moore K.S, Miceli M.P (1997) An exploration of the meaning and consequences of workaholism
Spence J.T., Robbins A.S. (1992) Workaholism: Definition, measurement, and preliminary results, Journal of Personality Assessment, 58: 160-178.
*Psicologo Clinico