L’isolamento forzato, il distanziamento sociale, le riflessioni profonde sulla vita e sul passato. E il ricordo, malinconico ma al tempo stesso speranzoso, di una Sicilia che fu. C’è questo e molto altro ancora a ispirare la nuova rubrica di EnnaOra, “Attimi di memoria… in quarantena – La Sicilia secondo me”, ideata dalla leonfortese Irene Varveri Nicoletti. Autrice dello splendido libro Di Terra e Di Nuvole, Irene parla con il suo brillante lessico letterario. 
Benvenuta da EnnaOra.
Josè Trovato

Attimi di memoria… in quarantena – La Sicilia secondo me

I ricordi hanno sempre alcunché di magico e di dorato, come le fiabe dei bambini. Un castello, una fata, una principessa e un cavaliere.
Favole che vanno bene a tutti, per piccoli e grandi. Per chi ha fantasia e per chi non ne ha. Favole di luoghi lontani e da mille e una notte, favole antiche e favole moderne. Favole di un tempo passato lontano e tramontato e favole del futuro che con l’ormai trascorso passato conservano solo uno sbiadito legame.
Poi ci sono le favole ambientate in Sicilia. Sono quelle bruciate dal sole e disegnate da matite al carboncino al nero di stoppie. Sono favole diurne che esigono l’ombra delle fronde di un albero di ulivo,secolare e generoso, simbolo di pace e di rinascita. Sono fiabe, queste, abbozzate dalle azzurre linee del cielo e dal giallo orizzonte tracciato dalle spighe dorate mosse dal vento di scirocco.
La mia fiaba è di una Sicilia dell’entroterra, fatta di luce, di monti e di valli. Una sorta di ossimoro: un’isola senza il mare, dove il mare è un miraggio e l’orizzonte ha il colore del grano. È una Sicilia costruita sui ricordi, attimi di memoria come tessere di un mosaico, rievocazione dell’antico mai sopito che continua a pulsare nelle vene del nuovo.
La Sicilia che mi appartiene è il posto che mi ha dato i natali, luogo vero e non immaginato da dove partire e dove tornare. Eppure pare la sagoma di una fiaba, anzi di un cunto, o di una storia di un tempo passato e sempre perpetua ed eterna. La mia Sicilia è un angolo di mondo, trionfo del quotidiano, dell’odore del pane e della brava gente. È la Sicilia delle piccole cose evocanti antiche glorie, di chi è passato da qui e di chi qualcosa ha lasciato, che ancora alligna tra miti e leggende. Perché la Sicilia, metaforica terra di mezzo, si attraversa e percorre e chi passa da qui lascia anima e cuore. Che questa è la terra di gente di cuore, anche se Kore si è persa, quest’anno decisa a restare più tempo agli inferi, reputandolo rifugio migliore.
Kore è il mito, il passato e il presente vestito di antico. Per Kore pianse Demetra, dea delle messi, che per nove giorni e nove notti cercò disperata la figlia. Kore, Kore, Kore. È il lamento di una madre che cerca la figlia. Di ogni madre per ogni figlia. È canto che viene dal cuore. È il canto della vita che rifugge l’Ade, è battito d’ali ed alito di vita soffiato lieve alle narici. È il canto della Terra per la Terra. È un canto di donna, come la Sicilia. Perché la mia Sicilia è donna ed ha un nome di donna. È femmina come la Terra che, fecondata dai semi di grano, accoglie nel grembo i suoi frutti. È madre come la Vergine che questa terra ha così tante volte salvato e protetto.
Fu Lei che sconfisse in un tempo lontano la peste e i figli dei figli salvati e a Lei grati, ricordano ancora la grazia. Lo ricordano oggi, con questa altra peste, che ci ha chiusi a casa e che l’aria ha ammorbato. Figli! Gli stessi che, indissolubilmente legati alla terra portavano addosso lo stigma della fatica e i morsi della fame. Una madre che, per quanto traboccante di amore ardente, non sempre ha saputo o potuto aiutare la prole. Sventurati che tra nebbia ed ignoto, per nuovi lidi e tra nuove fatiche son dovuti partire, aggiungendo alla lingua parlata parole d’addio e lacrime di sale.
Adesso rimane quella voglia di andare che spinge ancora a partire, ma è la stessa che invita a tornare, che lascia nel cuore un legame e un ricordo di polvere e zolle. Perché in Sicilia, nella mia Sicilia, si appartiene alla terra anche quando non si è ancora terra. Si sta nel ventre della terra madre, tra frutti, germogli e fratelli. Che i fratelli sono famiglia. Quella che lega e che unisce tra pranzi e armoniose fragranze di mandorle, ricotta e cannella.
È la Sicilia della tavola e del parentado. Delle tavole e delle tavolate. È pane sugli altari per il nobile Santo, primo nobile padre. Giuseppe, che ancora rivive nel pranzo del Consolo per la sua sposa, tra fede e ricordo per la sua dipartita. È il trionfo del pane, di grano e di vita che sempre sconfigge la morte. E il pane è di tutti e per tutti. Come la musica e il canto. Che la Sicilia è terra che canta d’ amore, di pene e gelosia, che di nobile ha poco ma di tormento ha tanto.
È isola di eccessi. Eccessi di amore ed anche di passione, di trasporto amoroso e patimento. Come l’amore per Cristo. Adorato tra le sofferenze dei chiodi conficcati nella carne e trafitto dalle spine di una corona alle tempie. È il miracolo che ogni anno e da secoli si ripete, è la Settimana Santa, quando soffriamo con lui e per lui in un’unica grande Passione nell’attesa di Pasqua. E intanto aspettiamo. Aspettiamo di aprire le porte, aspettiamo che torni il sereno e che tutto cambi se vogliamo che tutto rimanga com’è.

Irene Varveri Nicoletti