Cellulari, ovvero estensione dei nostri corpi, strumenti che annullano le distanze ed i silenzi – specie se regolati con suonerie a tutto volume – supporto e ausilio della nostra fievole e fragile memoria. Cervelli di forma regolare dove niente sfugge e dove tutto risulta appuntato e minuziosamente registrato.
Benedetta civiltà digitale che permette anche al signor Russo di utilizzare uno smartphone per chiamarmi il 22 marzo, in piena fase I di una restrittiva quarantena appena trascorsa. Data accuratamente segnata sul registro chiamate del mio Samsung grazie alla sua meravigliosa ed efficientissima memoria. Particolare che, naturalmente, non avrei mai potuto ricordare senza il suddetto aiutino, non essendo peraltro dotata della capacità mnemonica che possiede il mio interlocutore telefonico.
Pronto, sugnu Russo Gesualdo – ha esordito una voce metallica il secondo giorno di primavera di quest’anno anomalo e sospeso – Irè, mi ricanusci?
Caro il signor Russo Gesualdo, ove il cognome va sempre pronunciato prima del nome, per sua stessa vecchia e consolidata abitudine di matrice scolastica, certo che lo riconosco e che piacere è stato sentirlo vivace e non scoraggiato.
Arzillo senescente, ma giovinetto d’animo ante litteram e prossimo ai novanta, si era preoccupato per il mio stato di salute, mentre lui saggiamente trasferitosi nella casa della figlia insieme alla moglie, aveva pure pensato di informarmi sulle attuali condizioni di lei. Una donna che ebbi modo di conoscere di persona non molto tempo fa, durante una delle chiacchierate in casa Russo e che allora attrasse il mio sguardo per i suoi lineamenti delicati, tracce di una passata bellezza, e per i suoi profondi occhi cerulei testimoni di smarrimento in un presente senza più memoria.
Il signor Gesualdo, come un nonno affettuoso mi ha anche raccomandato di non uscire perché ‘sta cosa del virus è come la guerra, che lui ricorda bene perché aveva dodici anni quando si nascondeva dal nemico.
Ammazza e fa danno, mi ha detto. La guerra fa solo danno.
Nient’altro.
“Irè statti bona e saluta a tutta la famigghia da parte mia” che questo è il momento giusto da dedicare alla famiglia.
Ma anche ai fornelli, al bucato, alle pulizie, all’apprendimento remoto dei figli, al cane – che è meglio non portare a spasso fuori, tanto ha parecchio spazio a disposizione in giardino- allo smart working, al pilates, alle videochiamate di gruppo, alle auto certificazioni, all’acquisto di amuchina e a quello di mascherine e a tutto quello che ha riservato la quarantena, ho pensato io di rimando.
Scrittura compresa.
Come tante volte mi aveva chiesto il signor Gesualdo, che tanto desiderava sfogliare delle pagine che narrassero di lui, della sua vita e delle sue abilità.
Che poi, a dirla tutta, è il desiderio segreto di ognuno di noi, non sempre dichiarato o ammesso, ma conservato e nascosto da qualche parte per puro e compiaciuto edonismo.
Una biografia come i grandi, specie in vita, ce la meritiamo tutti direi, fosse solo per il fatto di poter dire io ci sono.
Ed eccolo il signor Russo, artigiano di rara bravura, conosciuto dalle mie parti come maestro dell’arte di intrecciare cufina e panara, che, in occasione di un evento artistico collettivo tenutosi lo scorso anno, mi chiese, rigorosamente al momento del buffet, con aria baldanzosa e con amabile disinvoltura e con un’espressione gioviale e ridente, se potessi scrivere di lui.
Richiesta che mi fece sorridere allora, ma nel contempo riflettere pur senza esitare, e che mi fa sorridere ancora per l’incoscienza con cui diedi risposta affermativa.
Scrivere di storie sobrie, senza colpi di scena, può rivelarsi un bell’esperimento per chi si avvale di carta e penna ma non è da trascurare –pensai e penso tutt’ora – l’incognita del fallimento.
D’altra parte chi può dire cos’ è rischioso e cosa il suo esatto contrario, chi può dire di non scorgere storie degne di essere raccontate negli anfratti del quotidiano, nella fatica di ogni giorno, nelle intercapedini degli anni che si depositano uno sull’altro, pesanti a volte come piombo, altre soffici come piume d’oca.
Chi può dire di non trovare la storia giusta, mimetizzata ma fluttuante tra le mille voci e i mille colori che si accavallano e confondono nelle piazze e nelle strade., tra la gente e tra la folla.
Chi può non afferrare tra le luci del giorno e quelle della notte, tra un cielo soleggiato o, a volte, nuvoloso frammenti di vita vissuta per animare pagine da scrivere e poi sfogliare.
O ancora chi può non rubarle tra lampioni che la sera disegnano le ombre e valenti netturbini che, alle prime ore dell’alba, ripuliscono l’asfalto da residui di scatole untuose e bottiglie smezzate complici di elevati tassi alcoolemici.
Chi può non affermare se tra i vicoli che, come il ritmo cardiaco, pulsano di vera umanità, non si nasconda la storia, quella di piccole dimensioni ma grande per vitalità ed intensità.
Quella che può rivelarsi la storia giusta, la storia da raccontare.
Per questo, ma anche per istintivo afflato verso una richiesta dai contorni vivaci e sereni scriverò del signor Russo Gesualdo, come lui l’anno scorso mi chiese e come desidera per puro capriccio.
I sogni son desideri, come in un film della Disney, ed anche a novant’anni come a qualsiasi età un sogno merita di diventare realtà.
– Pronto, signor Russo, le va bene se scriverò di lei a puntate sul quotidiano on line Ennaora, delle storie che mi ha raccontato?
– Comu dici è ben fatto. A patruna si tu!
Essere padrona di un sogno mi pare una bella soddisfazione…

Irene Varveri Nicoletti