di Irene Varveri Nicoletti

Il signor Russo Gesualdo, fiero della sua terza elementare più di tre stellette appuntate su una possibile uniforme da ufficiale, ama i libri, specie quelli della sua libreria.
Ne ha più di venti.
Li ha letti tutti, comprati per la maggior parte in occasione di viaggi parrocchiali organizzati da preti gitaioli. È stato a Lourdes ed anche a Roma, ma quello capitolino più che un viaggio è stato un ripasso, perché della città eterna “era già pratico”, avendo prestato, negli anni che furono, servizio militare a Cecchignola.
Ora, quasi novantino, il signor Russo desidera un libro che contenga e narri la sua vita, che di cose da raccontare ne ha tante, per lasciare un ricordo a figli e nipoti e perché vuole leggerlo e bearsene, essendo il diretto interessato.
Le parole scritte, ne è consapevole, tracciano solchi, lasciano traccia, non vengono spazzate dalla tramontana, non si perdono nel vento, ma restano e fanno radici. Sono come gli olivastri selvatici che, attaccati alle zolle, anche al mutare delle stagioni rimangono in attesa fin quando non vengono strappati per essere intrecciati da mani operose e dare anima ai “cufini” che nelle loro forme concave e non deformate resistono nel tempo. Questo vuole il nostro abile maestro “cufinaro”, fermare le parole, sottrarle al vento e intrecciarle come gli olivastri selvatici, tra le pagine bianche pagine di un libro ancora da scrivere.
Ora “questa cosa del virus” ha cambiato le carte in tavola e per aspettare che un libro stampato venga portato a compimento ci vuole pazienza e tempo, che ad una certa età appare più tiranno di sempre.  Fortuna vuole che esiste “internèt”, che è più moderno dei fogli di carta stampata, ed “il capriccio” di leggere della sua vita il signor Russo potrà soddisfarlo comunque.
–  Pronto, Irè, qualcosa l’ho già appuntata, ho scritto a mano due pagine di quaderno. Lo so che scrivere ottantanove anni in due pagine è poca cosa, allora facciamo che io detto e tu scrivi, man mano che i ricordi mi ritornano in mente, che tu sei “studiata” ed io è meglio se intreccio olivastri. Sta bene?
– Certo! E come ogni biografia che si rispetti cominceremo dalla nascita per procedere come crede e come vuole, che tanto le regole le stabilisce la memoria.
– “Cuminciamu”!
Era il 30 novembre del 1930, quando al civico 35 di via Picone, Dottore Rosa, moglie di Russo Salvatore, diede alla luce Gesualdo, primo di otto figli, a nove mesi esatti dal matrimonio.
Che le “cose furono calde” lo dimostra l’evidenza dei fatti con una presenza tempestiva del nascituro; i coniugi Russo diventarono genitori senza perder tempo e senza tante cerimonie ma tra una fatica ed un’altra tra zappa ed aratro, tra animali da portare al pascolo e terra da rassodare, Salvatore, nato contadino e diventato padre, con gesto simbolico, segno di indissolubile legame con la terra e con la vita, piantò un pino il giorno della nascita del primogenito che ancora oggi filtra tra le sue fronde la luce dei raggi del sole.
Con la rassegnazione delle famiglie dell’epoca e con la capacità di metabolizzare le frequenti morti degli infanti, i Russo persero poi due figlioletti che non avevano ancora compiuto due anni, quando ancora non avevano una tomba di proprietà al cimitero su cui piangere e lasciare crisantemi il 2 novembre, ma che a distanza di anni fecero costruire. I bambini invece furono seppelliti nella nuda terra messa a disposizione del comune, dove ancora rimane traccia delle ceneri dei due angeli prematuramente scomparsi.
Un terzo figlio morì da adulto; fu una disgrazia, frequente tra i contadini che buttano sangue e sudore lavorando sotto il sole cocente con i “mezzi”. La terra a volte è madre, altre matrigna, nutre i figli suoi con pane e frutta ma altre volte intrappola come la gramigna e tira calci sul muso come i muli aggressivi.
Famiglia di “viddani” i Russo, campavano con la terra.
Non erano ricchi e nemmeno poveri, se il metro di giudizio consiste nel possedere quattro tumuli di terreno. Nei fatti, insomma, il pane non mancava; erano quel che si dice con tipica espressione da entroterra siculo “‘na famigghia midiocri”.
Salvatore con le braccia ci sapeva fare e non temeva la fatica, in contrada “Scavo” aveva preso un terreno in affitto con contratto detto all’epoca “terre a metà”, ma i patti prevedevano che poteva tenere per sé tutto il raccolto di frumento e lui, che se intendeva, per bere un buon vino piantò una vitigno di qualità da sorseggiare a tavola e da accompagnare alla “frascatola” preparata dalla moglie dentro una casa pavimentata a balate, ma una buon alloggio con la sala da pranzo, la sala per partorire verosimilmente camera da letto e con una stanza per l’asino ed un paio di galline.
Donna Rosa, femmina di casa e regina di economia, vendeva uova per comprare il rocchetto e cucire ai figli pantaloni lunghi appena sotto il ginocchio per risparmiare stoffa pagata a peso d’oro.
Una brava donna che pensava alla famiglia faticando tra le quattro mura domestiche.
Cuciva e rammendava sempre, china su quelle pezze che conservava con cura perché servivano per i rattoppi. Pure il piccolo Gesualdo aveva pantaloni raccomodati con qualche toppa a riparare gli strappi ma non erano poi così tante, come certi compagni che portavano calzoni talmente mal ridotti che trovare la prima ed iniziale pezza equivaleva vincere un terno al lotto. Il ragazzetto si dispiaceva per loro, perché la povertà non era e non è vergogna e loro, i Russo, con quattro tumuli di terreno e il raccolto di frumento, avevano la fortuna di avere il pane, che a tavola non mancava mai.
Così andavano vestiti i piccoli e poveri paesani alla scuola elementare Nunzio Vaccalluzzo, con calzoni corti e scarpe rotte e dove Gesualdo frequentò fino alla terza classe, non diventando mai Balilla.
Per diventare balilla occorreva eseguire prontamente gli ordini ed obbedire senza chiedere il perché, ma soprattutto possedere tanti soldi, insomma era cosa per commercianti, a cui la lira non mancava e non era cosa per “viddani”.
Poco male, ricorda Gesualdo, non aver mai indossato quella divisa.
Non era una cosa di cui tener conto.
Non era come avere il pane a tavola e avere un poco di istruzione, anche quel “tanticchia” bastevole a pensare con la testa propria, a chiedersi il perché e a disobbedire se necessario.
Che per disobbedire bisogna pensare e pure saperlo fare.
E l’istruzione aiuta come il pane.
Ma almeno questo non mancava.