Per la nostra rubrica culturale dedicata ai racconti di scrittori emergenti, ospitiamo oggi uno splendido componimento della scrittrice Benedetta Di Nunno di Bari, intitolato “Chi sei tu”. Già autrice di Oltre i nostri limiti (edito nel 2017), la pugliese ha vinto numerosi concorsi di poesia, un premio di terza classificata del sito Scrivere; è stata inserita e pubblicata in due antologie Aletti. Collaboratrice della testata giornalistica online Hermes magazine, in questa storia pone l’indice sui pregiudizi e sull’omofobia dilagante nel mondo, sulla cattiveria dell’uomo e sul senso della vita, che dà sempre una nuova opportunità a chi ha sbagliato e vuol provare a redimersi. (josè trovato, direttore responsabile)

di Benedetta Di Nunno

Fa freddo fuori. Nevica da due giorni incessantemente. In questa prigione lontana dagli occhi di tutti, anche Dio sembra essere assente, sommerso sotto la silenziosa coltre di gelo, cieco e sordo ad ogni umano respiro. Fisso assorto e contrito il foglio bianco che ho davanti. La pena che scalpita tra le pareti del mio cuore, vorrebbe dimenarmi in urla di dolore e rabbia, ma sconfitta tace e sbuffa con tremiti violenti sotto le palpebre, sotto la pelle, in quel bagliore al neon bluastro della mia cella.
Il mio compagno di reclusione, Iacopo, al quale mai rivolgo parola per reazione alla sua invadente presenza, buttato come un cencio sporco, sulla branda di fianco al tavolino di metallo, dietro il quale siedo immobile da ore, alita rombi fragorosi nel sonno pesante quanto il suo corpo e disegna grottesco, il disgusto che si contorce in me, per il fallimento di ogni mio progetto, sogno o intento.
Sono fallito come medico: sopraffatto dall’alcol e dalla depressione ho ucciso anziché salvare. Sono fallito come padre: incapace di gestire una figlia, non mia, esigente, capricciosa e testarda,  frustrata per una vita “diversa” che le ho imposto e che non ho saputo spiegare. Sono fallito come compagno, affogando nell’inadeguatezza in cui ho sempre arrancato, non ho imparato a difendere un amore controcorrente di un uomo verso un altro uomo. E sono fallito come figlio, che sfrontato ed incosciente ha ucciso di dolore sua madre.
Mi accorgo d’un tratto, distolto dal tacere improvviso del russare di Iacopo, che come un automa, ho scritto per tutta la notte una lettera. Non so a chi spedirla, però. Forse a mia figlia, ormai donna spietata e fredda. Forse ad Umberto, mio unico amore, ora unito a chissà chi. Forse a mia madre, lassù, che la possa leggere con il suo Dio. Ho ripercorso a bocconi irati ogni maledetto giorno in cui ho annientato me stesso, da quando  lei è morta fra le mie braccia, prima vittima del mio egoismo.
La rivedo anziana, senza più lacrime, con gli occhi imprigionati  dietro  sbarre di fredda impotenza, come me in quella stanza senza identità, mentre prega, china sul suo Rosario, con il viso rigato dal pianto. Per anni ho lavato dal mio cuore quelle gocce preziose senza apprezzarne il senso. Le odiavo anzi, perché bruciavano più me che lei che le versava. La sua voce dolce, nonostante l’età, riecheggia nitida e la mia cella trema, scossa da troppo dolore, quello di ieri e quello di oggi. La ricordo stanca, ma non arresa, mentre si aggrappa ad ogni gancio. Persino un sacerdote pur di farmi rinsavire. Eppure sapeva che non avrei ceduto. Come lei, testardo, ho sempre rivendicato la mia posizione, la mia libertà. Libertà! Che parolone, che paradosso! Per un attimo mi blocco nel flusso dei ricordi. Sento una carezza. La mia mano istintivamente sale sulla guancia. È fredda, rugosa e spinosa, ma un tepore  improvviso, reale, ridesta il mio cuore esanime.
“Che fai, dottorino, ti accarezzi? Se vuoi posso fartele io due coccole”. Iacopo come sempre cerca di irritarmi,  ma più ci prova e più lo ignoro, e allora sarcastico, ride da solo, ormai rassegnato alla mia compostezza.  E intanto riprendo il filo dei miei pensieri.
Dopo mia madre c’è sempre Cecilia, mia figlia.  Rivivo con rammarico, il giorno in cui mi chiese perché non avesse una madre come tutti i suoi compagni. Perché invece lei aveva due padri, e questo la faceva soffrire. Non capiva e la mia inettitudine a spiegare il mio mondo, la mandava sempre più in confusione. Quando le dissi che l’avevo adottata, che sua madre era una mia paziente che non voleva altri figli, si chiuse in un silenzio cupo. Diventò sempre più rabbiosa. A scuola la isolavano, la deridevano. Nessuno veniva a casa nostra a studiare e le sue feste di compleanno erano sempre solitarie.
Poi, Umberto, non sopportando il mio atteggiamento di smarrimento, la mia incapacità di esprimere amore nei suoi confronti, – perché , se non sapevo offrire validi motivi a nostra figlia per giustificare le nostre scelte, per lui non ero sufficientemente convinto del nostro rapporto -, cominciò ad essere insofferente e infelice. Invece di aiutarmi a gestire  un’adolescente, per di più in crisi  per la mancanza di radici che sentisse vere, mi lasciò dalla sera alla mattina. Sparì senza una parola. Quel vuoto si aggiunse a quello lasciato dalla morte di mia madre ed io sentii di non essere più in grado di vivere felice. Mia figlia mi odiava, divenne cinica e fredda come se non avesse un’anima. Non studiava più e cominciò ad avere problemi anche con il cibo. Alternava periodi di digiuno, a periodi in cui si abbuffava, fino a che un giorno, a 15 anni, mi disse che voleva conoscere i suoi veri genitori. Mi rifiutai: non potevo perdere anche lei, e nel tentativo di tenerla con me, ottenni solo il contrario e lei se ne andò.  Ed io non la fermai.
Ero stanco e i sensi di colpa e la solitudine mi portarono giù in un abisso senza fondo e persi anche la speranza. L’alcool era la mia droga. Bevevo per non sentire il peso dei miei fallimenti. Dopo una notte passata ad ubriacarmi, sbagliai una diagnosi in ospedale e il paziente di appena 40 anni, i cui occhi spalancati per il terrore sono il mio incubo più spaventoso, morì per colpa mia. Da quel giorno non misi più il mio camice bianco. Mi denunciarono ed oggi sconto ancora quell’errore.
Mentre un brivido corre sulla mia pelle, mi accorgo che la notte si è accesa in un grigio opprimente, uguale a quello di ieri e ieri l’altro.
“Hai visto dottorino? Non nevica più”. Guardando Iacopo con assenza, lo induco, aspettandomelo, ad incalzare nelle domande, nel tentativo di provocare in me una qualsiasi reazione. “Non hai dormito stanotte?  Ti vedo stanco. Ah, ma tu sei sempre stanco! Ma oggi è il tuo giorno speciale, no? Mettiti il vestito buono, meh! e sbarbati che sembri un ergastolano! ahah”  Ormai parla, fa battutacce e ride da solo Iacopo, e termina sempre con una pacca sulle mie spalle, unico contatto fra noi.
E già, oggi è il giorno che aspetto ogni mese. L’unico che macchia la mia monotonia, e che, senza volerlo, mi dà un po’ di pace. Fra poco mi chiameranno a colloquio. Quel sacerdote ostinato, continua a venirmi a trovare. Ogni volta mi riporta indietro nel tempo, mi scaraventa fuori dai miei limiti e mi mette davanti uno specchio in cui ritrovare me stesso. Lo fa da anni e ancora non so chi c’è a guardarmi negli occhi. Ogni mese mi porta qualcosa di casa mia che poi non mi lascia mai, perché si cura di rimetterlo lì dove lo preleva, “per non scombinare le carte”, mi dice scherzando. Una volta mi portò quello scialle azzurro che mia madre usava mettere sulle ginocchia. Lo respirai come fosse una reliquia. Aveva ancora il tanfo di canfora che lei usava nei cassetti, che a me aveva sempre dato il voltastomaco, ma che invece allora fu come odorare fiori di campo. Un’altra volta mi portò una foto. Ero io da piccolo, arrampicato a mia madre, giovanissima e solare, che sorrideva serena.
Come stridevano i nostri sorrisi, con l’ultima sera in cui eravamo stati insieme! Che male mi fece questa constatazione! Perché don Vito facesse questo gioco sadico, non lo capivo, e se sentivo di odiarlo in una maniera esagerata, allo stesso modo lo aspettavo con ansia. E oggi è il giorno fissato. Puntuale arriva la guardia. Mi siedo di fronte al vetro e prendo il ricevitore. Don Vito mi sorride. Di solito io non ricambio, ma oggi ne ho bisogno. Non una parola profana il nostro dialogo con gli occhi.
Tira fuori dalla tasca del suo cappotto, un sacchetto nero. Me lo passa sotto il vetro. Dietro di me la guardia lo afferra prima che lo faccia io. È di prassi. Lo controlla alle mie spalle ed io non posso voltarmi. Queste sono le regole. Poi me lo consegna. Lo apro anch’io. È il Rosario di mamma. Lo lascio cadere sul tavolo, come se scottasse. Non riesco a stringerlo. Rimango lì a fissarlo, in silenzio. Dopo un po’, don Vito mi parla sottovoce: “Marco, è ora che tu mi ascolti davvero. Ho delle notizie per te”. Il suo tono severo mi scuote. Annuisco. E lui, deglutendo quasi a sottolineare il peso di ciò che sta per dire, prende fiato e continua : “Cecilia ha chiesto di venire a trovarti. Ha cambiato vita. Ora abita a casa di tua madre, giù in Puglia. Mi ha chiesto lei di portarti quel Rosario. È tempo che tu ti perdoni. È tempo che tu riprenda il cammino. Ti rimangono pochi anni ancora da scontare qui dentro, e fuori c’è ancora speranza”.
Ogni sua parola sembra  scartavetrare l’anima, e ripulire gli strati delle mie pene, fatte ruggine ormai. Non me ne ero reso conto prima di allora, ma quel percorso era iniziato da tanto e la goccia caduta oggi come acquaragia, ha terminato il suo lavoro. Mi sento felice e l’emozione mi spaventa, per quanto tempo non ne avevo più provate. Il mio corpo però non riesce ancora a sciogliere le briglie di anni composti in maschere severe. Ho troppa paura che tutto svanisca e mostrare il mio incrinare la guardia, mi fa perdere il gusto di quel mio sentirmi vivo, ora finalmente, dopo quasi una vita intera. Poi, però, una forza sopita, ma mai svanita, si desta.
Poggio la cornetta e chiedo alla guardia di portarmi qualcosa dalla mia cella. Don Vito attende paziente, senza scomporsi. Sorride. In quei minuti, in attesa che la guardia ritorni con ciò che gli avevo chiesto, guardo il Rosario. Sembra invitarmi ad essere raccolto e delicato come sollevassi una farfalla da un fiore, lo prendo tra le dita. Un balzo indietro nel tempo, impazzito e bloccato sempre a quella triste sera in cui  mia madre morì fra le mie braccia. Una frase fra le tante che scagliai senza riguardi, mi appare mostruosa : “Chi sei tu Dio, per sapere come andrà a finire? Io amerò quel bambino, più di quanto abbia fatto tu con me”.
Ero stato crudele e ingrato, ma anche per quello la vita mi stava ancora facendo  pagare.  Mamma mi rispose per le rime, ferita e vendicativa : “Se riuscirai nel tuo piano diabolico, ti guarderò da lassù amare un figlio non tuo, più di quanto abbia fatto io con te. Chi sei tu, Dio per sapere quanto amore ho nel cuore?” All’epoca quella risposta mi zitti’, poi mi ha torturato per anni. E come un serpente velenoso ecco, ora, risalire il delirio della solitudine e dei rimorsi, che da quella lontana sera, mi ha annodato i calcagni.
Non volevo soccombere ancora sotto quel peso, ma il ricordo dell’ abbraccio, in cui, finalmente ritrovati nel perdono e nell’amore, mia madre si accasciò, era ancora troppo angosciante.  L’aveva detto tante volte che il suo cuore non avrebbe retto al dolore, alla vergogna per un figlio contro natura che voleva andare all’estero per adottare un figlio con il suo compagno. Per lei era troppo. I suoi valori, la sua mentalità, la sua incapacità a gestire un mondo che non capiva, l’avevano chiusa e soffocata in una soffitta spoglia e fredda come la mia prigione. E alla fine, quando potevamo entrambi stringere un lembo di un nuovo futuro da tessere, aveva deposto le armi e con esse, la sua forza. E da lì, da quell’abbandono, era incominciato il mio declino.
Ad interrompere il mio strazio arriva finalmente la guardia. Mi porge la busta che avevo preparato prima di essere chiamato a colloquio. Non sapevo che l’avrei consegnata a qualcuno, anzi, ero convinto che sarebbe stata tra i miei effetti personali ad aspettare il termine della mia reclusione, unica traccia di me ad attendermi. E invece la vita mi dava una nuova occasione. “Padre, ecco. La prego, dia a mia figlia questa lettera, in cambio del Rosario che invece vorrei tenere.”
“Certo Marco, certo. Lo farò. Il mese prossimo non aspettarmi. Ci rivedremo in Chiesa. Tua figlia sa qual è”. Sorrido ora e sento sul viso, di nuovo lo strano tepore avvertito durante la notte. E ancora, istintivamente la mano sale ad accarezzare la guancia. “Sì mamma, mi devo sbarbare. Me lo ha detto anche Iacopo. Sembro un ergastolano”. Ritorno in cella con un bel sorriso e dico: “Iacopo, non sono più stanco”.
Un volto stupefatto mi osserva con un ghigno divertito. Non mi risponde. Mi avvicino a lui e una pacca sulla sua spalla, la più forte che posso, segna l’inizio di una nuova vita.