“Porti i saluti a mia sorella”. Disse un compaesano a Gesualdo che usciva, di pessimo umore, da una bottega di Raddusa dopo aver consegnato una forma di formaggio al “putiaro” che non volle pagare perché spaccata in due.
Borbottando e “bruttimiando” per il lavoro andato in fumo e per il mancato guadagno, inforcò la sua bicicletta e si diresse di tutta fretta a Leonforte, ché gli aspettavano tre ore di pedalate tra pianura, cunette e il calvario della salita di Pirato. Non era certo fatica pari a quella che si parava innanzi qualche anno prima, quando partiva alla buonora a piedi da Raddusa per cadere come piombo sul letto il pomeriggio, dopo nove ore di cammino!
Quelli erano ancora gli anni Cinquanta e le tasche non certo gonfie di denaro per poter comprare una bella moto Guzzi. Bisognava attendere ancora la vendita di altre e numerose forme di formaggio preferibilmente senza difetti e mettere da parte un po’ di banconote “testa con testa”.
Tra una pedalata ed una “santiata” quel giorno Gesualdo non dimenticò di certo l’impegno preso con il compaesano perché la parola è parola, anche quella data ad un passante. Prima di andare a casa si portò pertanto in zona Annunziata per salutare la donna che intravide alla finestra che, non sapeva ancora, sarebbe poi diventata la madre dei suoi quattro figli, la nonna dei suoi dieci nipoti e la bisnonna dei suoi due pronipoti.
Angelina, che pareva davvero un angelo con i suoi due occhi azzurro di cielo, ricambiò il saluto del giovane con un sorriso che le illuminò quel suo bel volto dai lineamenti delicati incorniciato dai capelli ondulati, lanciando uno sguardo di intesa al giovane che quasi cadde dalla bicicletta inebetito.
“Se sorride mi vuole!” pensò Gesualdo ancora in precario equilibrio.
E quello fu il primo di altri sorrisi che ricambiavano altri saluti sotto la finestra, preceduti da altre sfiancanti pedalate, fino a quando non si decise a presentarsi a casa di lei insieme al padre perché le intenzioni erano serie.
I suoceri acconsentirono al fidanzamento senza tante storie, trovando solo da ridire sull’età del pretendente più grande di sette anni della ragazza, perché loro avevano sei anni e mezzo di differenza e a volte sei mesi sono un particolare da non trascurare, specie se riguardano altri!
Quindici mesi di frequentazione, giusto il tempo di conoscersi e di mangiare qualche pernice a pranzo o altra cacciagione, e i due si sposarono e pure senza fuitina festeggiando in famiglia con un bel pranzo nuziale, brindando con vino rosso e mangiando a sazietà carne di maiale e insaccati.
E che fretta avevano di andare a dormire i novelli sposi, con il padre di lui con le mani alle orecchie per discrezione, posto a guardia della porta, a difesa dei pretendenti rifiutati che potevano vendicarsi appendendo dietro l’uscio un gatto morto per sfregio e malaugurio.
L’invidia era invidia ed Angelina era bella ma se l’era sposata Gesualdo e peggio per gli altri che erano rimasti a bocca asciutta perché quella era la donna della sua vita.
Certo qualche altra fidanzata c’era stata, era pur sempre un uomo di mondo, aveva fatto il soldato alla Cecchignola.
Qualche anno prima infatti era partito, lasciando per la prima volta la terra sicula, dopo aver ricevuto la cartolina dell’ufficio militare di leva, annunciata da sua madre con le lacrime agli occhi e sventolata fino al campo dove lavorava. Occasione buona quella per lasciare la zappa per quindici mesi e per godersi, a parer suo, un po’ riposo e per dare pace al testosterone.
E poi andava verso la capitale, mica roba da nulla!
Alla Cecchignola, a dire il vero, non c’era granché da fare, quasi niente, ma a Roma ci si divertiva ed anche parecchio. Tanto che riusciva ad allontanarsi dalla caserma spesso e volentieri, anche in consegna, facendo fesso il tenente e facendo dormire al posto suo nella branda il soldato sardo Latte Giuseppe a cui piaceva, a dispetto del cognome, il vino e che Gesualdo ripagava per il favore con qualche bel fiasco portato dalla Sicilia.
Nella città eterna trovò amici e conobbe le donne ché tanto la legge Merlin non era ancora manco in gestazione.
Andava in giro quasi sempre con l’amico Giovanni e la stazione Termini era la meta d’elezione per fischiare alle ragazze e buttare l’occhio verso quelle forme ondeggianti su tacchi alti o per cercare una fidanzata.
Era insieme all’amico commilitone, quando passò di lì Lucia in compagnia di un’amica e bastò dirle “Ti vuoi sposare?” per attaccare bottone e rivedersi qualche giorno dopo.
Lucia era una “regolare, anche se non proprio di prima mano”, era bellina e lavorava presso uno studio medico. Avrebbe meritato maggiore rispetto, almeno essere salutata prima del congedo di Gesualdo, visto che si fidanzarono.
Lui invece partì senza dirle niente, nemmeno un arrivederci, però pentito per l’azione poco onorevole, tornò a Roma qualche giorno dopo a cercare la ragazza per scusarsi, che trovò frattanto fidanzata con un altro perché si era offesa e non aveva tempo da perdere.
Gesualdo tornò a casa, peraltro dopo essere stato ospitato qualche giorno da parenti che temevano potesse trattenersi più a lungo e nemmeno senza tanto ripianto, nella speranza che il meglio doveva ancora venire magari proprio nel suo entroterra siculo.
In Sicilia, riprese a lavorare e faticare nei campi e tornò a fare il “viddano” perché tale era nato, senza rassegnazione ma con orgoglio e nella convinzione che niente era più vero del proverbio “mogli e buoi dei paesi tuoi”.

Irene Varveri Nicoletti