di Josè Trovato

Leonforte. Ho saputo della morte di Santo Laneri troppo tardi. Mi trovavo fuori e nessuno ha avuto l’idea, o la sensibilità, di farmelo sapere in tempo per partecipare al funerale. Quel giorno non c’ero e oggi è tardi, ma nulla mi vieta di onorare ugualmente la sua memoria. Intendo farlo dandogli voce ancora una volta, riproponendo le sue parole che pubblicai nel 2007.
Santo Laneri era un uomo d’onore. Fatemi spiegare bene il concetto, che dovrebbe essere elementare ma, ahimè, in Terra di Sicilia non lo è affatto.
I mafiosi si fanno chiamare “uomini d’onore” perché di quei valori distorti dell’onore fanno il caposaldo di un potere di cartapesta, mantenuto col terrore da quattro vigliacchi senza onore, che in società, non a caso, non hanno arte né parte.
Le persone perbene come Santo Laneri, uomo che ha combattuto la mafia in tutte le sue espressioni, sono uomini d’onore perché la società intera, il cuore pulsante della loro Terra, riconosce l’onore della loro esistenza, ricca di valori e di impegno civile.
Chi vive onestamente e dice no alla mafia è un vero uomo d’onore.
Non c’ero nel giorno della sua morte, ma ci sono stato spesso negli ultimi anni della vita del signor Laneri, come mi sono sempre rispettosamente rivolto a lui. Sono stato al suo fianco in tanti eventi pubblici e sono andato a trovarlo spesso a casa sua, nel cuore del centro abitato di Leonforte, nel pieno centro di quella movida che, per la musica troppo forte fino a tarda ora, lo faceva tanto arrabbiare.
Ha speso tanto tempo, negli ultimi anni della sua vita, a cercare di contrastare il tramonto della sua creatura, l’associazione antiracket e antiusura Falcone e Borsellino, a cui era legatissimo. Fu la prima associazione antimafia della provincia di Enna, ma all’improvviso si doveva chiudere, nel nome di una legge cervellotica e grazie al gioco di astrusi calcoli matematici legati all’assenza di nuove denunce. Tipici provvedimenti di un’italietta che dovrebbe imparare a usare un po’ meno il goniometro e un po’ di più il cuore, studiando la storia e valutando gli effetti assurdi che inevitabilmente si producono sparando nel mucchio. All’improvviso, in pratica, la sua associazione, il pezzo migliore della storia recente di Leonforte, è stata cancellata dagli elenchi delle organizzazioni antiracket, perché ritenuta obsoleta e non più attiva. Nonostante Santo Laneri non avesse mai smesso di andare a scuola e parlare con i ragazzi, per raccontare loro l’importanza della legalità, delle denunce e della lotta alla mafia; e nonostante non avesse mai smesso di aiutare le persone in difficoltà – non solo quanti lo erano, in difficoltà, per colpa dei mafiosi, ma anche aiutando concretamente, con gesti di generosità e beneficenza, tante famiglie – in pratica, una “dura lex sed lex” ha deciso di cancellarla dagli elenchi. A un certo punto il signor Laneri mi propose anche di presiederla, la sua associazione, per provare a salvarla. Tuttavia alla fine fummo d’accordo che per varie ragioni non fosse il caso, anche perché forse era troppo tardi.
Ma Santo Laneri, così come la sua associazione, intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino immediatamente dopo la loro morte, nel novembre del 1992 – quando non erano ancora tutti a celebrare la grandezza di questi grandi uomini (non come oggi, che vengono ricordati a sproposito da persone che non sanno neppure chi fossero, Falcone e Borsellino) – continueranno a vivere dentro di me.
Mi auguro che la nostra città si attivi per onorarne la memoria e, in tal senso, in veste di giornalista, di autore di due libri sulla mafia ennese, di direttore di EnnaOra e di presidente della Pro loco di Leonforte, lancio un appello al sindaco Carmelo Barbera. Non l’ho avvertito, ma sono certo che lo raccoglierà.
 
 
 
Quello che segue è il capitolo 5.1 del mio libro La mafia in provincia di Enna. Una storia negata. Nel breve testo, Laneri racconta i momenti drammatici della sua lotta alla mafia di Leonforte. Un periodo che lo ha segnato profondamente.
Vi prego di contestualizzare la lettura: era il 2007 e per i mafiosi era un momento di calma apparente e di transizione. In quel momento non si prevedeva ancora che negli anni successivi la mafia leonfortese si sarebbe riorganizzata e rimessa in modo. Le mie allora erano solo ipotesi basate sulla mia attività di cronista sul campo. Ovviamente ho avuto ragione, ma questa è un’altra storia.
  

Santo Laneri


 
 
Laneri e cosa nostra leonfortese.
 
“Chi non denuncia i mafiosi, fa parte anche lui della mafia”. Santo Laneri è il presidente dell’associazione antiracket e antiusura Falcone e Borsellino di Leonforte. L’associazione nacque dopo una serie di denunce presentate da imprenditori edili e commercianti. I boss furono condannati, e da allora a Leonforte non si sono più sentiti tentativi di ingerenza. I mafiosi, insomma, hanno avuto paura. Ma non sono certo andati via. Oggi la mafia è attiva e lavora ancora, a Leonforte. Obiettivamente credo che passerà poco, dopo la pubblicazione di questo libro, che non arriverà qualche notizia importante. Si è chiesto ancora il pizzo, insomma, o almeno così sembra. Per non parlare dell’usura. Ma quella di Laneri è un’esperienza personale. Una storia importante.
A che periodo risalgono i fatti?
“Siamo negli anni ’90, tra il 1990 e il 1992. E’ tra il ‘92 e il ’93 che gli estortori sono stati arrestati”.
Quando ha subito la prima richiesta di pizzo?
“Ero a pranzo, era l’una e mezza. Ho ricevuto una telefonata. Ho risposto e ho sentito una voce maschile che mi ha detto: ‘Prepara venti milioni e ci sentiremo’. Ho chiesto di farsi riconoscere, ma non ha risposto e ha riattaccato”.
Lei non sapeva chi fosse?
“Non potevo saperlo. Telefonava nelle ore più strane. Dal dialetto capivo che si trattava di gente di Enna, ma non ne ero sicuro al cento per cento”.
Cosa ha fatto?
“La prima cosa che ho fatto è stato andare a denunciare tutto quello che era successo alla polizia di Leonforte. È stato in quel momento che ho saputo che anche altri imprenditori erano sotto torchio. Ho saputo che chiedevano il pizzo ad altri.
Quanti eravate?
“Eravamo dodici, imprenditori e grossi commercianti. Quando ci siamo conosciuti abbiamo deciso di costituire un’associazione antiracket a Leonforte”.
Prima ancora di fare arrestare i mafiosi?
“Si, prima. L’associazione Falcone e Borsellino si è costituita il 5 novembre 1992 e da allora siamo stati insieme. Ci incontravamo per discutere e rassicurarci a vicenda”.
Cosa è successo dalla prima intimidazione agli arresti?
“Io continuavo a ricevere telefonate, di giorno per non farmi mangiare e di notte per non farmi dormire. Ho denunciato tutto. Appena mi sono rifiutato di pagare, un giorno in contrada Cernigliere, dove avevo il deposito, trovai una bottiglia di benzina. C’era anche un accendino. Un altro giorno una cartuccia. Un altro giorno la testa di un tacchino”.
Intanto continuava a ricevere telefonate. Cosa le dicevano?
“Mi chiedevano se avevo trovato l’amico buono a cui dare i soldi”.
Ci faccia capire meglio. Cos’è questa storia dell’amico buono?
“Dovevo individuare una persona cui dare i soldi dell’estorsione. Il mafioso, poi, sarebbe andato da lui”.
Doveva essere lei a cercarlo?
“Proprio così. Dissi al telefono: ‘Guardi, come amico buono ho il tabaccaio davanti  casa mia, ma non posso certo lasciare i soldi là’. Scendevo e sotto, spesso, incontravo Tano Russo (Russo fu arrestato, poi, processato e condannato, ndr.). Lui un  giorno venne al supermercato mi prese a braccio disse: ‘C’è cosa?’. Aspettava che mi confidassi per dirmi: ‘Posso risolvertela io’.  Io rispondevo sempre di no. Tanti si sono confidati”.
Come ha fatto a indicare in Russo il suo estortore?
“Ogni mattina era davanti al portone di casa mia in macchina, quando uscivo di casa per andare ad aprire il negozio mi trovavo davanti lui”.
Cosa le diceva?
“Niente, non mi parlava e io non lo guardavo. Si faceva trovare davanti aspettando che lo fermassi per informarlo”.
E la polizia che parte ha avuto?
“La polizia è stata molto vicina. Ci assisteva, ci proteggeva. Ricordo che una volta di notte la polizia intercettò il figlio del mio guardiano, insospettita, ma lui stava solo andando a portare da mangiare al padre. Si appostavano per vedere se qualcuno si avvicinava al supermercato. Ci dicevano come comportarci, sono stati degli Angeli custodi”.
Avevate il telefono sotto controllo?
“Si, ma non si è riuscito a fare nulla”.
E dopo gli arresti, invece, cos’è successo?
“Io ho denunciato Tano Russo, altri Galletta di Agira”.
Poi iniziò il processo…
“Si, siamo stati messi davanti in qualità di denuncianti. Russo ha provato a difendersi dicendo che eravamo amici. Di fronte a tutti gli ho risposto: ‘Ma chi ti conosce?’. Cercava di convincere i giudici che non mi avrebbe mai fatto del male”.
Non avevate paura?
“Si, certo, ma anche tanto coraggio. Li abbiamo denunciati. Nel confronto con Russo, io ho sottolineato: ‘Si, è vero, venivi da me a chiedermi se avevo problemi’. Sono stati condannati. Russo era il capo”.
È finita così?
“No, perché poi quando sono usciti per noi sono iniziati i guai. Abbiamo avuto la sensazione che intimidissero i clienti, almeno nel mio caso. Misero in giro la voce che non dovevano venire da me, al mio supermercato. In alcuni casi si mettevano davanti al negozio per non fare entrare la gente. Io avevo un grosso giro di affari, che poi però è andato scemando. Poi mi sono ritirato, sono andato in pensione è ho chiuso, anche per questo. Ho avuto problemi anche con le banche”.
Insomma: il suo è un caso in cui lo Stato è uscito sconfitto?
“Beh, io penso di si. Ma ora i tempi sono cambiati e le leggi aiutano molto le vittime del racket”.
Crede che a Leonforte, oggi, si paghi ancora il pizzo?
“Guardi, oggi a Leonforte non glielo saprei dire, perché nessuno viene a denunciare. Ma la gente è informata. Si sa che lo Stato risarcisce ma servono le denunce. Tempo fa c’è stato un caso a Leonforte. Vennero da me dicendo che un padre di famiglia doveva restituire agli usurai settecento euro. Risposi che sarei stato disponibile, anche perché era una piccola somma e non c’erano problemi. Ma aggiunsi che serviva denunciare. Mi fu risposto che volevano i soldi, ma non avrebbero denunciato nessuno. Non ci fu seguito”.
Oggi quanti siete?
“I soci dell’antiracket sono 29”.
Tutti vittime?
“No, tutti vittime non direi, le vittime siamo stati in dodici. Poi ci sono persone che si sono associate perché hanno apprezzato la costituzione di quest’associazione, entusiasti. Siamo la seconda associazione nata in Sicilia e una delle poche che ha individuato, denunciato e fatto condannare questa gente”.
Lei non ha paura a uscire di casa?
“No, io sto tranquillo. Una volta ho incontrato, di recente, Russo. Ero all’interno di un supermercato. Io stavo scendendo dalla macchina per entrare, lui è entrato dentro si è messo in un corridoio da dove mi guardava con gli occhi torti, ma poi è andato fuori. Ora è molto che non lo vedo, ma quando mi vedeva cambiava strada”.
Ritiene che abbiate contribuito a migliorare Leonforte?
“Si. Abbiamo fatto pulizia a Leonforte”.
Che idea si è fatto della mafia oggi?
“Ritengo che la mafia, anche se nascosta, è sempre mafia. Fino a quando ci sono anche degli scagnozzi dei boss, è sempre pericolosa. Lo Stato è molto attivo contro la mafia, ma ci vuole di più. Chi non denuncia il mafioso, fa parte anche lui della mafia. Non bisogna avere paura, oggi lo Stato ha fatto delle leggi che sono davvero ottime”.
(Da “La mafia in provincia di Enna. Una storia negata” di Josè Trovato – Lancillotto e Ginevra edizioni)