“Conosce il gioco degli scacchi, Antoon?”
Da giovane lo adoravo e tutt’ora, alla mia veneranda età, continuo a giocare sfruttando quel poco di vista che mi rimane.
Sono lieta di ospitarla e lusingata dalla lettera che mi annunciava la sua visita ed io, di rimando, cercherò di non annoiarla nell’esaudire quel suo tal carezzevole desiderio di voler conoscere la mia vita. So che ha già apprezzato le mie opere e so pure della sua eccellente abilità nel realizzare grandi cose, lo leggo anche dal suo sguardo per quello che i miei occhi mi consentono ancora di distinguere.
Gli sguardi mio caro sono importanti, ne abbia sempre cura nei suoi ritratti, ché gli occhi sono specchio dei moti dell’anima, e badi al riso e al pianto che sono la porta per la verità.
Io ne so ben qualcosa, anzi le dico che questo, che già fu dei grandi maestri, lo tenni ben presente quando ritrassi, in special modo, le mie sorelle nel giardino intente a giocare a scacchi mentre Europa, la piccola di casa, insieme alla fantesca, che si occupò di noi con dedizione, osservavano curiose e interessate.
Le dicevo che adoro gli scacchi, d’altra parte la mia vita somiglia un po’ a tal sì fine gioco.

Eravamo sette fratelli, tutte femmine ed un sol maschio, sotto il cielo di Cremona e in una casa illuminata dalla luce della sapienza e dalla lungimiranza dei nostri genitori. Come pedine bianche eravamo pronti per la prima mossa nella vita, pronti ad iniziare la partita e a non subirla, a studiare con ingegno le nostre azioni, così come ci avevano educato.

Fu mio padre, amante della storia e dell’arte a darmi il nome di Sofonisba, ossequio alla cultura ed omaggio a Cartagine. Ci avviò tutte quante alla letteratura, alla musica ed alla pittura e ci sostenne al pari di nostro fratello. Aprì la strada a noi, figlie sue, ed alle altre donne che vennero dopo e che dopo noi ancora verranno.
Alla bottega del maestro Campi eravamo solo due giovinette, io ed Elena mia sorella minore, e destammo perfino sospetto circondate solo da maschi. Poi però gli altri allievi finirono per dimenticare che eravamo femmine diverse da loro, sì vero nell’aspetto, ma uguali nella pratica e attitudine e diventammo parte di quel forbito gruppo.
Ché il pregiudizio, sa Antoon, è pesante come fardello quando è ancora preconcetto, ma quando esso scompare sa rendere ridicolo a chi garbava.
E intanto io ed Elena ci inebriammo di arte senza mai rinunciare al nostro esser donne con gioielli al collo, abiti di stoffe morbide e sontuose, ché la cultura mio caro, affina il gusto e ingentilisce il cuore sì anche l’aspetto.
Andammo poi alla volta della bottega del pittore Gatti e conoscemmo lo stile del Correggio e con esso l’arte di ritrarre al naturale.

Ah, i ritratti, e il vero e il bello! Sono sempre stati la mia propensione.
Ho amato tanto ritrarre anche me stessa e questo genere, ne sono certa, continuerà a piacere e piacerà anche in futuro, magari con altra lingua e con altri modi, ma occorre studio oltre che la dedizione ché senza ingegno non si può nulla. Il talento, non dico nulla di nuovo, non è solo attitudine ma anche genio ed anche la mano vuole il suo ragionamento.
Che poi, è anche quel che vale per gli scacchi, quel gioco di destrezza intelligenza e creatività di cui già poc’anzi dissi.
Fu la naturalezza che piacque tanto al divino Michelangelo che vide il mio “fanciullo morso da un gambero” grazie al mio caro padre che lo spedì in bozza e il vero piacque pure alla regina Isabella che in Spagna nominò me, artista e donna, ritrattista di corte.
Sì, giovane amico, andai a Madrid a palazzo!
Fu veramente una vita bella, tra luci, feste, balli e i miei ritratti da tutti ammirati.
Certo non fui mai pagata per i miei lavori al pari dei miei colleghi maschi anche se ottenni doni e regalie; colpa del mio esser donna a cui però mai rinunciai.
Molti uomini si invaghirono di me ma non volli mai marito in Spagna in nome della mia libertà, ché pure in un palazzo dorato si può essere prigioniera, tanto che la mia scelta fu financo invidiata dalla regina.
Acconsentii al matrimonio solo dopo la sua morte, preferendo un italiano ai tanti spagnoli che avevo conosciuto.
Sposai Fabrizio per procura, nobile fratello del viceré, e venni qui a Palermo e devo dire che mi piacque nell’aspetto, ma non durò tanto.
Morì cinque anni dopo e in mare, tra le acque di Capri, dopo un attacco dei pirati alla galea che lo trasportava. Non è che poi gli avessi dato completamente il cuore, ma la sua morte fu ugualmente dolorosa.
Avevo più di quarant’ anni e pensavo che l’amore non dovesse più arrivare e non feci altro che lasciare le cose libere di poter accadere.
Partendo da Palermo in nave, in compagnia di mio fratello e con tutta l’intenzione di rientrare nella mia casa natale, incrociai sul ponte lo sguardo di Orazio, il capitano.
Gli sguardi, mio caro!
Ne ho sempre avuto cura non solo nell’arte ma anche nella vita e quello di Orazio era pieno di luce ed al mio perfettamente combaciava.
Non persi tempo, per pudore ben capirà non posso dire in cosa, e quanto prima lo sposai, appena la nave attraccò a Pisa. Fu scelta libera e convinta, gesto di istinto e di passione, non atto ragionato ma riuscito.
Non ha forse l’amore bisogno anche di questo? È frutto anche di genio, nell’ altra sua faccia impulsiva irrazionale ma anch’essa vera.
Mio caro ospite, tentò di dissuadermi perfino il Granduca, essendo Orazio più giovane di me, ma io che sempre sono stata libera risposi che “li matrimoni se fano in cielo poi in terra”.
Tanto ci siamo amati e se anche Dio non ci ha mai dato prole, ho amato il figlio suo come se fosse il mio.
Con lui al mio fianco continuai a ritrarre volti, vivemmo a Genova e poi insieme a Palermo dove tutt’ora vivo e dove lei Antoon mi trova.
E se ha ancora amore nel volermi ritrarre lo faccia, io sono pronta ma, per carità, non con la luce dall’alto, di modo che non si notino le rughe”.
Era l’estate del 1624 ed a Palermo imperversava la peste prima del miracolo di Santa Rosalia che la liberò dal morbo e lo stesso giorno del ritrovamento delle sue ossa sante.
Questo non impedì a Sofonisba Anguissola di ricevere in visita il giovane Van Dyck in una elegante dimora barocca della città.
Il grande artista, dopo averla ascoltata con incanto, si apprestò a ritrarla di tre quarti, con la testa coperta da una cuffia e lo sguardo offuscato dall’ età ma sempre vigile
Ne volle accentuare il brillio superstite degli occhi, omaggio alla lunga vita di una donna che in tempi non maturi riuscì a diventare una delle più celebri pittrici italiane.
Questo è quanto avvenne in quel lontano 12 luglio.
O qualcosa di molto simile.
NB: storia liberamente ispirata alla vita della pittrice Sofonisba Anguissola

Irene Varveri Nicoletti