di Irene Varveri Nicoletti

Mio carissimo Stèphane,
avevo già da tanto tempo nell’animo di dedicarti una lettera che mi auguro giunga al tuo cuore come una carezza, suggello della nostra imperitura amicizia.
Ho appena intravisto le prime luci dell’alba che mi hanno invitata a mettermi in piedi, per quanto in equilibrio precario, ma che finalmente hanno mosso l’impegno preso con me stessa di scriverti e raggiungerti dalla mia stanza. Ho molto sofferto nei giorni passati per il grigiore di quella fitta coltre di nubi che ha incupito anche il mio umore lasciandolo in balìa di pensieri tormentati, ma oggi, finalmente, un raggio di sole ha squarciato quel cielo livido e minaccioso rinnovando il miracolo del nuovo giorno. La luce delle prime ore del mattino, che si è insinuata trionfante tra i vetri appannati segnati dalle mie impronte, mi ha svegliata sì presto ed ha lasciato sulla mia fronte un nuovo alito di speranza leggero come il bacio di un bimbo. Ho abbandonato il letto e, seppure con difficoltà, prima di mettermi allo scrittoio, ho guardato fuori dalla finestra cercando di eludere il dolore che sento al torace come avessi una lama affilata conficcata ai polmoni, che mi blocca il respiro. Ho tanta fame d’aria che a volte mi pare di annegare nell’acqua mio caro, ma riporto sempre la testa in superfice perché ho ancora tanta voglia di vita. Vorrei poter lasciare questa stanza opprimente, che appartiene ormai solo alla mia malattia, ed andare ai Boulevard con leggerezza e vestita alla moda, urlare e cantare a squarciagola e godere appieno di questo gennaio che investe Parigi di freddo e di ghiaccio. Tuttavia, se mi fermo a pensare un attimo solo, se provo a spostare lo sguardo verso l’imminente futuro non riesco a vedere per me neanche febbraio.
Julie dorme ancora, è immersa nel suo sonno soave di piccola donna su un cuscino color verde pallido, che pare rifinito dalle ciocche dei suoi capelli chiari che intanto cominciano a farsi castani. Se avessi un minimo di forza per potere fermare questa impressione, abbozzerei un acquerello di trasparenze e colori vibranti. È molto bella mia figlia, lo credo sul serio, anche se la guardo con occhi di madre. Non mi somiglia affatto. È sempre stata più simile al padre nel volto e nelle fattezze, nei colori e nei modi eleganti e leggeri. Erano tanto legati lei ed Eugene, intesa perfetta e profonda. Julie amava suo padre, più di quanto possa averlo amato io stessa. O meglio, caro Stèphane, non è che non lo amassi, ma stavo al suo fianco senza passione, come se fosse per me quel fratello mai avuto e non come una donna dovrebbe amare il suo uomo. Julie invece…erano fatti l’uno per l’altra, era il padre perfetto per lei e io amavo loro uniti e felici, gioivo nel vederli giocare o discutere insieme. E quando volevo cogliere appieno l’essenza di quelle impressioni le fissavo su carta o su tela per trasformarli in attimi eterni di tenera delicatezza. Disdicevole per una vedova rivelare quest’ intimo sentimento ad un amico, ne sono consapevole, ma cosa ho da perdere adesso che il tempo rimasto per me è così poco, cos’altro posso fare se non presentarmi per quella che sono, fuggendo dall’inutilità dell’ipocrisia borghese, dove anche noi, che pure ci sentivamo i migliori, intingevamo i nostri pennelli. So che hai sempre saputo, come so che non hai giudicato l’amore clandestino che avevo donato ad Èdouard e l’affetto che poi avevo donato a suo fratello, scegliendolo in sposo, per stargli vicino. Non che abbia qualcosa da rimproverarmi, non rinnego il mio matrimonio, anzi è motivo di orgoglio e certo non è stato un errore.
Ricordi quel giorno tra la natura di Bougival?
C’eri anche tu con la mia famiglia, uniti e felici, almeno mi pare sia andata così. Non che abbia problemi di memoria, ma la malattia a volte mina pure i ricordi. Julie insisteva col chiamarti zio e tu ti beavi del titolo acquisito sul campo. Le vuoi bene, l’ho sempre saputo, come fossi veramente lo zio, e so che le auguri il meglio che la vita possa donarle. Io l’amo più di me stessa e confido che impari presto a fare a meno di me, che affronti con forza la mia dipartita come ha già fatto col padre, che possa vivere nell’esempio dei suoi genitori, fatto di essenza pur senza presenza, che prenda da me quel pizzico di sana follia, testardaggine e ribellione per poter diventare una donna libera e autonoma.
Sono ancora tempi difficili per il mio genere caro Stèphane, io lo so bene. Ho ancora sulla mia pelle i segni dello stigma del giudizio e pregiudizio ottuso e meschino, nonostante la mia famiglia abbia fin da giovinetta incoraggiato me e le mie due sorelle a non demordere, a studiare disegno in un atelier e a non farci mancare il sapere. Eppure la nostra civilissima Francia nega ancora l’accesso alle donne all’ Ècole des Beaux- Art, come lo negò a me per lo stesso ignobile e abietto motivo. Fino a quando continueranno a calpestarci? Fino a quando l’esser femmina non potrà coniugarsi con la luce, i colori, i pennelli e le tele? Per quale ragione donna vuol dire rinuncia?
Che poi, a dirla tutta, rifuggivo l’accademismo, ho sempre amato dipingere en plen air, fuori e all’aperto, per assorbire la luce solare nei suoi mutamenti, donare ai volumi la leggerezza di una piuma, dare alle cose una consistenza soave, dipingere impressioni fatte di allusioni. Pensa che il mio primo e personale atelier fu il giardino di casa dei miei, fatto apposta costruire da mio padre per me e le altre figlie, grazie a quel suo atteggiamento, che sempre lo contraddistinse, di protezione ed emancipazione nei confronti del mondo e della famiglia.
All’aperto Stèphane, è lì che bisogna dipingere, è lì che si trova la luce.
Non che rinneghi lo studio passato, anzi fu quella la mia occasione per cambiar rotta nell’arte e nella mia vita. E, pensa un po’, proprio al Louvre, scrigno di tesori ma luogo chiuso e stagnante, in un giorno ordinario dell’ormai lontano 1868, mentre riportavo su carta il fasto di Rubens, alzando lo sguardo incrociai quello di Èdouard che mi costrinse, con il suo magnetismo, ad abbassare il mio di rimando. Non dimenticherò mai quell’incontro anche se non so cosa avvenne con precisione, certe attrazioni, per la loro potenza, sfuggono anche alle definizioni. Ma so che in concreto divenni la sua prediletta, la sua indiscussa modella per undici volte, so che colse la mia intensità nel ritratto, nel dettaglio dei miei occhi neri e negli abiti scuri o ancora vestita di bianco, seduta al balcone. Ma lui fu per me soprattutto mentore e consigliere, fino a quando non si rivelò esageratamente eccessivo, com’era per temperamento. Ricordo quella volta che, ansiosa di inviare il ritratto di mia madre e mia sorella al Salon, piuttosto che offrirmi suggerimenti verbali, intervenne sulla mia tela, trasformando il mio lavoro nella caricatura del suo. Lo odiai e mi arrabbiai per quel gesto, tanto che volli fuggire dalla sua prepotenza di uomo e di artista, dall’esuberanza dei suoi atteggiamenti, anche se la mia anima, in fondo, gli apparteneva, anche se la mia arte era cresciuta nella sua arte.
Scelsi negli anni una vita serena, me lo dovevo, seppure restandogli non molto lontana e diventandone la cognata. E checché se ne possa dire il mio è stato un matrimonio sereno, ho avuto una casa ritrovo di artisti, che come è noto hai sempre anche tu frequentato, ho vissuto d’ arte esponendo tele e acquerelli alle mostre annuali, eccetto quell’anno della mia gravidanza.
Eugène è stato tenero, non mi ha mai chiesto nulla, tu che lo hai conosciuto apprezzavi il suo stile da grande signore.
Così ho scelto quella pacatezza sottile che mi ha fatto apprezzare la luce dei giardini e degli interni, le piccole gioie familiari dettate dalla tenerezza di un bimbo dentro una culla coperta da un velo leggero, lo sguardo amorevole della maternità e la gioia delle pose infantili.
Non è stato un passo indietro, Stèphane, non è stata una rinuncia alla mia libertà. È stata una scelta di sensibilità, una ribellione leggiadra. È stato anche il voler subordinare la tecnica alle forme e ai colori e lasciare la mia personale carezza leggera alla vita.
Un po’ come oggi faccio con te.
Ti lascio la mia leggerezza che spero ti giunga come una piuma e consegno nelle tue mani l’amore che provo per Julie. A te l’affido da oggi e per sempre, nella certezza che presto non sarò più in questo mondo, lasciando in lei e per lei il mio sentimento profondo.
Addio mio caro amico in cui confido, sono certa saprai donare a mia figlia l’amore di un padre.
Abbi cura di te e di lei.
Ricordatemi se potete.
Tua per sempre Berthe Marie Pauline.
Era una mattina di febbraio del 1895, quando al cimitero di Passy, nei pressi di Parigi, il poeta Stèphane Mallarmè in compagnia di Julie Manet, lasciò un bouquet di violette alla tomba di Berthe Morisot, madre della ragazza, da poco scomparsa a soli cinquantaquattro anni.
L’uomo, dopo aver letto ad alta voce alla giovane la lettera che conservava nel taschino sinistro, si soffermò ad osservare la breve incisione della lapide sotto cui riposava la donna sepolta a fianco del coniuge.
“Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet”.
Tutto qui, nient’altro.
Nessun riferimento alcuno alla sua arte, nessun cenno al suo agire anticonformistico di artista e di donna in un mondo di uomini. Nessun riconoscimento.
Stèphane, ancora con la voce spezzata e carico di commozione, dopo un breve silenzio guardò Julie negli occhi per un tempo indefinito.
Fu lei a parlare per prima.
– Non è un mondo a misura di donna il nostro, zio Stèphane, esige meno violenza e più follia –
Lo sussurrò con determinata delicatezza.
– Andiamo mia cara, riusciremo a fare giustizia alla nostra donna e a quella sua furia vitale mista a nonchalance che l’ha resa unica –
Rispose calmo il poeta prendendo sotto braccio la figlia adottiva e incamminandosi verso il viale di cipressi che conduceva all’uscita principale del cimitero.
NB: storia liberamente ispirata alla vita della pittrice impressionista Berthe Morisot.