di Josè Trovato

Cosa Nostra a Leonforte, oggi come ieri, è una questione di “famiglia”. La storia più recente della mafia leonfortese narra la presenza, in passato, del carpentiere Rosario Mauceri, in qualche modo subentrato, quale referente del clan di Enna, al suo anziano suocero. Finito in prigione Mauceri, condannato all’ergastolo per aver organizzato un duplice omicidio di stampo mafioso nel ’99, quasi in una successione dinastica, lo scettro del potere mafioso in paese passò a suo cognato, Giovanni Fiorenza. Fiorenza, detto “sacchinedda”, si mise all’opera nel 2013 per aggiustare un clan ridotto a una “casa mal messa” (così disse, intercettato), tenendo al suo fianco i suoi due figli: Alex (“u stilista”) e Saimon (“u bufalu”). Anche i due figli sono stati arrestati con lui nel 2013. Questa è storia. I personaggi sono stati tutti condannati con sentenze definitive.
Il 21 aprile del 2021, cioè ieri, gli atti dell’operazione Caput Silente lasciano emergere che a muovere le fila del clan, dal carcere, sino al 2019 sarebbero stati proprio loro due, Alex e Saimon, con l’aiuto di un leonfortese già condannato per tentata estorsione al tempo dell’inchiesta Homo Novus, Gaetano Cocuzza, che all’epoca non era stato accusato di associazione mafiosa e che fu tra i primi a lasciare il carcere. Assieme a loro, del clan avrebbe fatto parte – quantomeno sino all’aprile del 2019 – un fratello incensurato di Rosario Mauceri, Salvatore, arrestato ieri per associazione a delinquere di stampo mafioso (la stessa accusa contestata ai fratelli Fiorenza e al leonfortese Natale Cammarata).
Ora. Queste sono le accuse. Queste sono le ipotesi di reato poste alla base di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Graziella Luparello, quasi 1.230 pagine di documento richiesto dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Roberto Condorelli, che si fonda sulle indagini condotte dagli agenti del Commissariato di Leonforte e della Squadra Mobile di Enna. E’ presto per dire chi sia innocente o colpevole di queste nuove accuse. Lo diranno eventuali processi.
A noi spetta raccontare verità putative, anche perché la verità assoluta, forse, non è di questo modo. Ma sta di fatto che tale ricostruzione rappresenta il contesto generale emerso ieri dall’operazione Caput Silente. Emergono richieste di pizzo a imprenditori, a costruttori edili, tentativi di minacciare alcuni ragazzi dell’associazione antiracket di Leonforte, protagonisti di coraggiose denunce che diedero vita, otto anni fa, all’inchiesta Homo Novus. C’è l’organizzazione di un delitto, sventata con l’arresto di uno dei promotori dell’omicidio, che aveva letteralmente murato preventivamente l’arma del delitto, ma la polizia gli stava un passo avanti (come sempre a Leonforte, del resto) e lo ha fermato prima ancora che l’organizzazione divenisse esecutiva, sequestrandogli ovviamente pure la pistola. Ci sono tante altre storie di cronaca, traffici di stupefacenti, contatti con fornitori catanesi, casi terra terra di spaccio, il tentativo di controllare lo spaccio stesso da parte dell’organizzazione criminale, quando in passato i piccoli pusher riuscivano ancora a sfuggire, in qualche modo, al giogo di chi tesseva le trame di Cosa Nostra in paese.
E ci sono le connivenze: c’è una sottile linea grigia che attraversa la società civile coinvolgendo pure alcuni insospettabili. A leggere le carte dell’inchiesta Caput Silente, ve lo dico: vengono i brividi.
Ma è forse anche per questo che oggi più che mai occorre rivendicare l’orgoglio di vivere a contatto con la gente di Leonforte, l’orgoglio di essere leonfortesi nonostante la delinquenza dilagante in città. Oggi più che mai bisogna rivendicare l’orgoglio di chi sa di vivere in una terra dove tanta gente si è ribellata al pizzo, ha contattato la polizia e ha fatto finire in galera chi voleva imporre il racket. Ma oggi più che mai bisogna dire che non ci si può più voltare dall’altra parte. Stare al fianco delle associazioni antiracket significa prendere le distanze dai mafiosi mettendoci la faccia; e dicendo: “Io, con questa gente, non farò mai affari”. Perché la contiguità, era una riflessione di Paolo Borsellino, significa essere complici.
L’operazione Caput Silente regala a tutti i leonfortesi tanti sottili brividi lungo la schiena, certo, ma anche un nuovo, freschissimo, profumo di libertà. E sta ai leonfortesi stessi, oggi come domani, il compito di non far risalire la puzza del malaffare.