Ogni mattina di quegli ultimi anni che chiudevano il Novecento, Guido, come di consueto, si alzava alla buonora con movimenti lenti dettati dalla sua veneranda età, preparava un caffè omaggio alla memoria della sua natura italiana che sorseggiava poi in una tazza sbeccata, si sedeva dietro un vetro e guardava sempre verso l’edificio di fronte. Cominciava poi a muoversi con ritmo lento su una sedia a dondolo con calma serafica nell’attesa che dalla finestra della camera 65 della casa di ricovero, che osservava quotidianamente, qualcuno aprisse le imposte alla luce del giorno parigino per poter intravedere, tra le trasparenze delle tende, una mano alzata in cenno di saluto.

Quel segno avrebbe determinato l’andamento della sua intera giornata e l’avrebbe fatta buona o cattiva. Guido dava a quelle dita dalla movenza armonica, come sfioranti i tasti di un pianoforte e che parevano accennare una melodia leggiadra per l’anima, un simbolico valore cabalistico. Quella mano di donna raffinatamente guantata di bianco, che ammirava a distanza come si farebbe con un quadro, lo riconciliava con il suo passato e con Parigi dove si era sempre sentito un’ospite non gradito ma, all’occorrenza, lo demotivava e incupiva se il movimento si faceva rigido e anchilosato. A prescindere comunque dal significato che avrebbe assunto, la semplice attesa che precedeva l’estrinsecazione di quel gesto di saluto, infondeva in lui un’energica vitalità di desiderio perché quella era la mano di Dorina, la donna della sua vita.
L’aveva sempre chiamata così, fin da quando, ancora giovani in erba, si erano conosciuti all’Ecole de Photographie de la Ville de Paris. A lei piaceva quel nomignolo, lo usava suo padre per vezzeggiarla da bambina, per compensare il rapporto tempestoso e tumultuoso che aveva invece con la madre, e permetteva a lui di fare lo stesso. La Dorina che ogni mattina salutava Guido però non era più la ragazza di un tempo ma un’anziana donna vissuta, non lontana dal compiere novanta anni di età, sopravvissuta al suo carnefice, ovvero all’uomo che paradossalmente l’aveva amata, che tale si era rivelato nei fatti, che le aveva inferto ferite e sevizie nell’anima con l’umiliazione e il tormento. Dora, da giovane, aveva vissuto una storia d’amore singolare e tossica che l’avrebbe condotta alla morte se non avesse trovato in sé stessa la forza di salvarsi e di dominare la sua furia suicida. Ormai anziana, però, sapeva scherzare sul suo vissuto pacatamente e ripensare serenamente alla rinuncia del compimento di quel gesto estremo come volontaria ripicca verso chi, all’epoca, ne avrebbe tratto soddisfazione e compiacimento.
Al secolo Henriette Theodora Markovich, il mondo l’aveva conosciuta come Dora Maar o, più ingiustamente, come la musa di Picasso. Per Guido Martelli era invece sempre rimasta Dorina. Nessuno aveva mai saputo quanto l’avesse amata per l’intero arco della sua esistenza e quanto avesse sofferto per lei quando si smarrì nel labirinto cubo-surrealista costruito dal suo aguzzino.

Dora era sempre stata una donna di talento e di intelletto che le derivava da una dimensione pre uterina, Guido l’aveva intuito già ai tempi della scuola. Avevano fatto un po’ di strada insieme con la fotografia ma aveva scelto di restare un passo indietro quando lei, in quegli anni Trenta della crisi, insieme al comune amico Man Ray, aveva trovato la sua personale cifra stilistica nella “fotografia di strada”, reputando corretto lasciare correre i due alla velocità che si meglio si addiceva loro.
Guido non era come Dora, non era capace di urlare al mondo il suo desiderio, che invece sapeva farlo eccome. Lei riusciva a soddisfare la sua profondità catturando attimi di vita di gente ai margini, cogliendo l’umanità del gesto, schierandosi concretamente e con coraggio dalla parte dei diseredati e senza rinunciare mai al mondo dei sogni, alla seduzione del primitivo ed alle sue stranezze inquietanti e sensuali.
Guido invece, era altro. Diceva si sé stesso di essere l’uomo della camera oscura, preferiva l’ombra e stare in disparte. Aveva un modo tutto suo modo di sentire il dolore del mondo e di tradurre il suo altruismo in beneficenza silenziosa ma senza mai trasformarlo in ideologia.

Dora, all’opposto era fatta per splendere. Era affascinata dal magico e dal surreale e spesso chiedeva a lui, di origine partenopea, spiegazioni sulla cabala napoletana, trovandola incredibilmente affascinante e porta di accesso socchiusa verso l’ignoto. Guido le parlava dell’anima e del ventre della sua città, le raccontava orgogliosamente dell’Italia specie quando incalzava con le domande ma subiva, e capitava alcune volte, un malevolo trattamento, fatto di punzecchiate di umorismo graffiante, che trasformava in mutismo la sua silenziosa ammirazione verso quella donna che continuava a pensare come inarrivabile. Aveva conservato il suo provincialismo che non riusciva a scrollarsi di dosso pur vivendo da anni a Parigi mentre Dora, come tante artiste di estrazione borghese era emancipata e libera. Tuttavia e in modo singolare, la prorompente Dora Maar gli voleva bene e lo lasciava trasparire dal suo sguardo limpido e straordinariamente luminoso. Aveva dalla sua e a differenza di Guido la conoscenza del mondo, aveva viaggiato da sempre fin da bambina per Buenos Aires e sovente lasciava Parigi per partire per l’Europa da sola. Con il suo spagnolo fluente e musicale, che parlava con quel tono di voce singolare, comunicava all’ultimo momento di avere i bagagli pronti. Si nutriva di luce e amava Barcellona che aveva compreso catturandone il tono vitale e i riflessi. Poi tornava a Parigi dall’amico italiano, che non partiva mai, che non poteva abbandonare il suo angusto studio fotografico specializzato in ritratti per famiglie, ma sempre pronto a sbucare da dietro il bancone per riabbracciarla al ritorno.
Solo una volta Guido non si fece trovare; gli avevano raccontato che Dora era stata l’amante di George Bataille, lo scrittore. E allora preferì rifugiarsi dentro il suo involucro di protezione dove nascondeva il suo senso di inadeguatezza, salutandola però il giorno dopo, perfino pentito della sua reazione scomposta.
Eppure, nonostante le diversità, non smisero mai di frequentarsi anzi spesso passavano del tempo insieme, per lo meno fino a quel dannato appuntamento al Cafè les Deux Magots nel 1936 quando Guido, finalmente deciso a rivelarle il suo amore, pensò di incorniciare le parole che avrebbe detto e trovato con difficoltà, con un bouquet di fiori.
Le cose tuttavia non andarono come Martelli aveva immaginato, il corso degli eventi fu infatti deviato da un’imprevedibile situazione e quel ritardo per l’acquisto del petit cadeau fu fatale o, meglio, le cose vanno come devono andare e scelgono il percorso che è stato già abbozzato dalle azioni pregresse.
Arrivata prima di Guido, Dora si sedette da sola a un tavolo della terrazza del caffè. Nell’attesa e per bizzarria si era messa a giocare con un coltellino, come aveva imparato dal poeta Prevèrt che di pensieri e stranezze femminili se ne intendeva, cercando di colpire con destrezza lo spazio tra un dito e l’altro della mano inguantata di bianco, tentando di non sbagliare bersaglio e di non fermarsi di fronte alle ferite sanguinanti. Dora Maar non passava certo inosservata e di lei si accorse Paul Eluard, seduto poco dietro con Pablo Picasso che venne abbagliato dalla sua traboccante originalità. Raggiungendola al tavolo si fece donare il guanto chiazzato di sangue per conservarlo, a memoria di quel gesto eccentrico, in una mensola di casa.

Guido arrivò mentre il grande pittore volle per sé il sangue di Dora, ed avvertendo una fitta al petto preludio di una tragedia per lei e di un immane dolore per lui, non seppe far nulla. Con in mano un mazzetto di anemoni, i cui petali volarono al vento, rimase a distanza immobile, bloccato e profondamente angustiato. Comprendeva di trovarsi dentro la fine di un inizio che non c’era mai stato, realizzava di aver perso la donna che amava che non aveva mai avuto, sapeva che mai avrebbe potuto competere con Pablo Picasso che certamente avrebbe sedotto Dora. Non si avvicinò nemmeno, strinse con tutta la sua forza il bouquet tra le mani, girò le spalle e andò via.
Dora intanto, travolta dal fascino dell’artista, ammaliata dalla forza dell’ignoto, rimosse l’impegno con Guido. Quel guanto bianco insanguinato, che aveva sfilato con eleganza, segnava l’inizio della sua relazione con Picasso, quel macchie ematiche marchiavano l’anticamera di un tunnel che avrebbe percorso al buio.
Da quell’incontro Dora, mortificando la sua natura di donna e la sua aura di artista, fu musa e amante di Picasso, immenso nell’arte ma pessimo uomo, parte di un harem cui appartenevano anche l’ex moglie e l’amante bambina gravida, per essere poi abbandonata, dopo nove anni, per un’altra donna ancora.
Di fronte a quell’uomo dall’ego smisurato che seguiva solo la legge del suo gineceo, la grande Dora Maar, non resse il cimento. Picasso non sapeva amare, non aveva cuore.
Le inquietudini latenti di Dora, che sublimava nell’arte della fotografia, implosero a fianco dell’uomo che l’adombrava e perse il controllo di sé al punto da lasciarsi convincere dal suo amante aguzzino a darsi alla pittura. E questi non aveva altro scopo se non umiliarla, sapendo che lei mai avrebbe eguagliato la sua arte pittorica, sapendo che avrebbe sofferto, che avrebbe lasciato riaffiorare dal suo profondo i fantasmi ammuffiti del passato e della sua sterilità.

E sadicamente sedotto dal dolore di Dora, Picasso la ritrasse in Guernica. Il volto tragico della sua musa personale divenne quello della figura che sorreggeva la lanterna del dipinto. Dora venne volutamente sacrificata al Minotauro ad emblema dell’immane tragedia.
Era per lui semplicemente l’amante che piangeva, era la donna dalle lacrime dipinte, nient’altro.
Ma Dora era artista non semplice musa, era soggetto quando tornava alla fotografia, quando di Guernica fu autrice del reportage fotografico mai realizzato prima di allora e quando nella dimensione femminile delle donne di intelletto non smise mai di cercare sé stessa e il suo desiderio. Eppure vagò senza tregua tra i suoi incubi, tra le sue tragedie interiori specie dopo la conclusione di quel rapporto in frantumi, dopo l’addio al padre ebreo perseguitato e costretto a fuggire in America Latina, dopo la morte della madre e dopo l’elettroshock.
Dora piangeva, era vero, per le sue ferite di donna e di artista e aveva bisogno di cure per cancellare le sue lacrime dipinte, aveva bisogno di aiuto. Dora doveva salvarsi, doveva tornare soggetto, doveva riprendere in mano le redini della sua vita, doveva ricorrere alla psicoanalisi di Lacan. Doveva tornare al suo desiderio che aveva tradito per realizzare quello di un altro, doveva reimmergersi nell’arte della fotografia con la purezza di prima, quella dei tempi dell’amico italiano, doveva tornare alle origini.
E quando lo fece, dopo il ritiro tra le Benedettine, dopo periodi di meditazione, nutrimento per l’anima e lo spirito, Dora come l’araba fenice rinacque.
Intanto Guido negli anni non l’aveva mai persa di vista, l’aveva amata a distanza, Dorina era sempre rimasta il suo desiderio, auspicato e non realizzato.
Tuttavia nella concatenazione e circolarità degli eventi spesso le cose si rimettono in sesto. Il caso aveva voluto che la casa di ricovero che Dora aveva scelto per concludere in pace la sua esistenza fosse proprio di fronte la casa di Guido.
Aveva letto da un quotidiano che la musa di Picasso alloggiava a due passi da lui e, seppure non felice del modo in cui Dora veniva definita dal giornalista che non le rendeva affatto giustizia, realizzava che dopo quasi sessant’anni era giunto per lui il momento di consegnarle quel bouquet di fiori, pur nel timore di non essere ricordato. Più forte della paura era però il desiderio, che ora percepiva più chiaramente, nonostante il tempo trascorso e a prescindere dal luogo di incontro, non più un cafè parigino ma un posto tranquillo per la vecchiaia.
Era deciso e non perdere ancora del tempo e di andare presto a trovarla, tanto che non fece trascorrere nemmeno mezza giornata dalla sua lettura per attraversare la strada e raggiungerla a pochi passi da lui. Si fece accompagnare fino alla stanza da un’infermiera lasciandosi annunciare come un vecchio compagno di scuola.
– Camera 65, ‘o chianto – pensò – come se non fossero bastate le sue lacrime dipinte –
La trovò seduta, elegantemente vestita con la stessa cura di un tempo e la guardò. Dora ai suoi occhi era ancora una donna attraente, che aveva trasformato la vivacità di un tempo in serena espressione del viso, come se il dolore non l’avesse mai sfiorata. La voce poi, appena parlò, aveva l’incanto di sempre.
– Sei in ritardo Guido – sussurrò lei appena il vecchio amico entrò in camera, abbozzando un sorriso.
Ed aveva ragione. Aveva un ritardo di sessant’anni.
Poi con classe si sfilò un guanto e glielo donò. Era bianco candido e non aveva macchie di sangue.
Guido ricambiò il sorriso e lo prese per sé per conservarlo come una reliquia su una mensola di casa.
L’attesa non si era rivelata vana e Guido era tornato al suo desiderio.
Aveva ritrovato Dorina e la sua purezza.
NB. Storia liberamente ispirata alla vita dell’artista Dora Maar.