di Lucio Sergio Catilina

Oramai, mi conoscete da un bel po’ e, ovviamente, io conosco voi.

Trovarmi qui dove sono, mi da la possibilità di girare per lungo e largo, di saltare di qua e di la e di fermare la mia attenzione su ciò che cattura la mia curiosità.

Non vi rivelo alcun segreto, se vi dico che sono un uomo del mio tempo; ma, poiché adesso io non vivo il tempo siccome siete abituati a scandirlo voi, un segreto ve lo voglio rivelare, mi piace girovagare in quello che voi chiamate “mondo telematico” e curiosare nelle vostre “chat”.

No, credetemi, non è per fare pettegolezzo; ne sono stato vittima sin troppo io dei pettegolezzi (figuratevi che voglia possa avere di pettegolare sugli altri!) ma solo per soddisfare una mia curiosità. Lecito, no?

Sono stato un uomo del mio tempo, ribadisco; adesso, tuttavia, che sono uomo del Tempo, intensamente desidero immergermi nei momenti particolari di Esso ed inebriarmi di Vita.

Non mi piace ubriacarmi. Solo inebriarmi per quel tanto, che mi possa portare indulgentemente a sorridere tutte quelle volte che molti di voi declamano la frase che quel Simpaticone mi sputò addosso, “o tempora, o mores, che tempi, che costumi”, come se i costumi fossero figli dei tempi e non si perdessero e confondessero nell’Eternità.

Nihil sub sole novi, nulla vi è di nuovo mai sotto il sole”.

Gli uomini e le donne (per carità, chi le sente se no le rappresentanti di quello che una volta veniva definito “il gentil sesso”’) da sempre si sono scambiati messaggi e saluti augurali. Quando incontrandosi, quando congedandosi.

Ci si salutava nelle vie, nelle piazze, davanti le porte di casa.

I più continuano a salutarsi in tale guisa, o con una telefonata; altri, molti altri, hanno preso l’abitudine di scambiarsi il buongiorno e la buona notte con una “videochiamata” o… in “chat”, dove rafforzano lo sterile stereotipato saluto augurale con un “post”, ovverosia una poesia, un disegno, una canzone, un… aforisma.

Pensano di corroborare l’augurio, attraverso una qualsiasi espressione che, il più delle volte,viene presa a prestito da una personalità, a torto o ragione, ritenuta eminente.

Proprio su un aforisma di Leonardo da Vinci sono andato ad imbattermi, che mi ha fatto fermare a riflettere,” Triste è quel discepolo che non avanza il suo maestro”.

Ritengo che Leonardo, esternando un sentimento di tristezza, abbia voluto riferirsi al suo Maestro non tanto per competizione, quanto per avere dubitato di non essere riuscito, attraverso una legittima emulazione, ad uguagliarne la maestria, addirittura avanzandola.

Mi piace pensare che il sentimento di tristezza non nasca dal prendere coscienza di un insuccesso, bensì dal paventare l’ipotesi che il Maestro si sia potuto intristire, a causa del mancato successo dell’allievo.

La genialità leonardiana riesce a cogliere in pieno la quintessenza del delicatissimo rapporto del Maestro con il suo Allievo, che ha inizio dal primo momento dell’incontro tra i due, quasi con un “brivido” (ah, Sanremo!) e si snoda, consolidandosi, sino a travalicarne i giorni dell’esistenza terrena.

Non è soltanto un ottimo rapporto interpersonale; bensì un rapporto unico, una comunione di interessi, un coinvolgimento di intenti, un’effusione di sentimenti, una fusione di anime…un primo assaggio d’Eternità.

In alcune parti della Sicilia, al lattante viene dato il nome di “addevu”, ovvero neonato da allevare; e, invero, al bambino appena nato la mamma fornisce tutte le cure necessarie alla sua prima crescita, rassicurandolo prima con la dolcezza dello sguardo, quindi con la tenerezza della donazione del seno, sempre pronta a rincuorarlo, a sostenerlo nella certezza della sua presenza e nell’aiutarlo a trovare il dolorante capezzolo.

Alla stessa stregua, il Maestro si dona all’Allievo (che non è semplicemente un discepolo, uno che segue un altro, per apprendere), nella maniera più completa e disinteressata, mettendosi dolorosamente a nudo; e mentre gli rappresenta gli inevitabili ostacoli della via, non glieli rimuove sbrigativamente, per dimostrargli di saperne tre volte di più, ma gli sussurra come fare per superarli, facendo si che un giorno sia proprio lui, il suo allievo, a sussurrargli il modo migliore per affrontare e vivere la vita.

Durante l’allattamento, la mamma non si aspetta la gratitudine dell’addevu; è sazia e grata lei stessa della sazietà e della serenità del bimbo.

Il Maestro, neppure, si aspetta un grazie. Nessuna ricompensa. Egli non ha un metodo specifico, non si ferma a valutare scientificamente.

Soddisfa alle esigenze dell’iniziale “ brivido”, pago della sola speranza di bene operare, sicché il suo Allievo possa superarlo in saggezza e in sapienza. Triste lui, quando non si vede “avanzato”, triste l’allievo, al solo pensiero di avere potuto intristire il Maestro.