di Irene Varveri Nicoletti

Città del Messico – mattino del 2 0ttobre 1968

Io sono, io ero e sono sempre stata una pazza.

I fantasmi di un tempo sono tornati insieme a visioni indistinte per Pablo e Gabriel, miei figli adorati. Voglio per loro interrogare le mie carte e chiedere dell’imminente futuro. Mai potrò sopportare una sola ferita sulla loro vivida carne, mai potrò superare un distacco.

Sono scrittrice di arcane parole, pittrice che veste del mistero insondabile e alchemico le tele vergini e bianche, donna feconda come la Terra che celebra l’originario femmineo. Madre che ha dato alla luce del Messico le sue creature e che ora teme per loro e che piange, con tutte le madri della nazione, per quanto dovrà accadere in questo giorno funesto di ottobre, per il sangue delle giovani vite che cadranno sotto gli spari e per le loro bocche che affideranno al vento il grido di giustizia e uguaglianza mentre le loro braccia alzate in segno di pace esecreranno odio e violenza.

Sento già l’odore acre dei corpi bruciati tra le antiche rovine di piazza Delle Tre Culture che arderanno il fuoco della fiamma olimpica per aprire l’indegno spettacolo che senza ritegno sarà celebrato, vedo un massacro nel secolare quartiere di Tlatelolco che non posso fermare. È solo questione di ore.

Con le tende tirate e dal buio del mio studio ho tra le mani il matto, l’appeso e la morte, segno di cattivo presagio per la nostra terra ma non riesco a leggere nulla che riguardi i miei figli. Eppure di certo il loro destino è nascosto tra questi arcani maggiori dipinti da me, adornati con foglie d’oro e d’argento come voleva la mia amica Remedios. mia dolce compagna di arte di saperi alchemici e di visionarie ricette, prematuramente strappata alla vita e al surrealismo che ancor la reclama. Lei, maga che conosceva il passato e prediceva il futuro, visionaria, eccentrica e inquieta, avrebbe saputo aiutarmi nella lettura in questo momento.

Remedios era un po’ come me Leonora la pazza, come mi chiamavano in Spagna, foriera di anarchia e libertà che già da bambina, da giovane donna e adesso da madre, credeva nell’arte e in tutte le donne del mondo. Quando ho predetto per loro insieme a Remedios la decisiva caduta del patriarcato, per il prossimo secolo che sarà così pregno di stragi, non ho avuto alcun dubbio. Adesso che chiedo per il sangue del mio sangue ho tanta paura e tremo, l’angoscia è rinchiusa nel petto e la disperazione, che non so contenere, è già fuori dall’argine.

Sto cercando risposte per Pablo e Gabriel ma non riesco a capire. Ricordi della mia vita passata affiorano adesso alla mente e la affollano.

Non so se è più stolto questo mondo reale o la mia folle realtà che ho sempre dipinto.

Ho sempre vissuto dentro le storie uscite dalla mia penna e dentro i miei quadri, io vengo da un regno di fate. E se l’opulenta Inghilterra mi ha dato i natali in una famiglia impregnata di odore nauseante di denaro e potere, io non sono mai stata parte di loro. Io ero una figlia cambiata in una culla d’infante, Changeling indecifrabile e indomita cresciuta in mezzo a dei maschi, esclusa per la dislessia da piccoli uomini egoisti ed ingenui. Non potevano affatto comprendere che nel mio linguaggio, ai loro occhi malato, io ritrovavo la mia natura animale nutrita da vecchie leggende celtiche, intonate dalla mia amorevole madre come una nenia.

Lei che era simile a me oggi mi manca.

Lei capirebbe e comprenderebbe tutto il dolore che sento.

Non l’ho più rivista perché mai ho voluto riconciliarmi con la mia famiglia d’origine e lei ne era parte.

Questa mia essenza frutto della mia ribellione è il dolore che le ho provocato.

Ma oggi che torno per un momento di nuovo bambina le dedico una carezza. Rivedo frattanto con la mente e con gli occhi i miei amati cavalli e animali fantastici che vedevo da piccola e che poi dipingevo per dar loro il soffio di vita in me e fuori di me, che erano il mio ausilio potente per rifuggire il rigore cattolico della mia scuola che tanto piaceva a mio padre. Sarei diventata, a suo dire, povera oppure omosessuale, crimini equivalenti per lui e per chi la pensava a suo modo. Ripenso all’inizio della nostra e mai sanata rottura al sadico modo cui lo delusi quella volta e sempre. Non ha mai creduto in me, era convinto che avrei lasciato gli studi. Invece feci il contrario, entrai in una scuola, seppur diretta da un uomo che mi costrinse per un anno intero all’inutile e sterile esercizio di disegnare una mela. Una mela! Che ne sapeva poi, misero uomo, del frutto del primo peccato che invece fu di Eva.

Erano gli anni in cui conobbi Joan, la mia amata compagna di stanza, specchio della mia inquietudine, che poi dipinsi con in mano la copia de I ragazzi terribili. Amore sincero e mai diventato saffico. Altro mio modo per non darla vinta a mio padre e a quanto pensava di me, ma fu anche frutto della mia convinzione che amare in senso carnale e completo era ben altra cosa.

L’amore, sì! Quello così intenso da fare soffrire o perfino perire e che fu il mio personale dono per Max, ovvero l’uomo che il resto del mondo conosce come il grande Max Ernst.

A lui ho dato tutto l’amore che avevo fino a svuotarmi, la mia audace passione, il mio trafiggente dolore e la mia folle disperazione. Come quella che mi assale in questo momento, mentre leggo le carte, per i miei figli pronti a scendere in piazza per un mondo migliore.

Adesso, tra i miei fantasmi che volteggiano in cerchio per tutta la stanza, lo vedo seduto al mio fianco a parlarmi e farmi coraggio.

Un tempo per me lui era il tutto. Era padre, amante e maestro, guida e faro che illuminava il cammino nell’arte. Ed io, nonostante la mia indipendenza, rimasi schiacciata da quel rapporto senza equilibrio. Essere donna nell’Europa del Trenta significava stare in cucina e i surrealisti del nostro gruppo volevano bambole o manichini sensuali per divertirsi o soddisfare le loro voglie represse. Max non era da meno, come l’amico Bretòn, glielo dico anche adesso mentre annuisce abbassando la testa dai contorni sfumati.

Eppure l’ho amato con quei bianchi e folti capelli da uomo maturo e con quelle sue mani che afferravano e accarezzavano i miei fianchi stretti di ragazza ventenne. Lui era la mia ribellione, amarlo era pure il mio modo per umiliare mio padre che mi sapeva compagna del marito di un’altra.

Ma adesso che Max in questa stanza è solo sostanza si alza e scompare ancora una volta. Diventa una nuvola e non lo riesco a fermare. È il passato che torna, è il distacco che vedo e rivedo e mi fa trasalire.

Quando era il mio uomo lo portarono via soldati con in mano le armi, come quelli che oggi ho visto là fuori. Prima i francesi, dopo i tedeschi, prima per Max ci fu la prigione dopo per lui ci fu il campo. Ma fu Peggy, che poi ho conosciuto, a condurlo con lei oltreoceano comprando un paio di biglietti senza ritorno. Invero ancor prima della sua partenza lo rividi per caso tra i colori e il profumo di fresco dei banchi di frutta a Lisbona e mi chiese di tornare da lui. Mai io rifiutai.

Che forza che ebbi, oppure ero solo coerente.

Avrei dovuto lasciare Renato che mi aveva salvata, che mi era stato vicino nel momento di estremo bisogno a cui dovevo rispetto non riuscendo a dargli quell’amore, seppure pacato, che poi diedi al mio caro Chiki.

Da allora sono stata serena con lui, padre di questi miei figli che vogliono pari diritti per tutti ma che oggi mi fanno impazzire.

Perché in questo giorno di luce di ottobre e dopo tanti anni, tornano in me i vecchi fantasmi della follia e della perdita, uguali a quel giorno in cui vennero a prendere Max ed io vagai senza meta ubriaca per aver annegato i pensieri nell’alcool e devastata nel corpo per aver squarciato l’esofago col vomito indotto.  Da quel doloroso ricordo tutto è confuso e indistinto, a parte la chiara visione del suo ritratto con un bianco cavallo che volli dipingere dopo il suo primo rilascio, a protezione di ogni altra disgrazia.

Per tutto il resto rivedo appena, da una porta lasciata socchiusa dalla mia mente, sagome d’uomo e sento udire parole indistinte in lingua spagnola, sento perfino parlare mio padre e nelle narici mi pare avvertire l’odore pungente d’urina. Comprendo che è Santander che ritorna, è il ricordo del manicomio, che batte di colpo alle tempie, e di me nuda e legata nel letto circondata da camici bianchi e di due dita che mi stringevano il naso per farmi inghiottire due pillole amare.

Ma l’irrompere inarrestabile della mia forza emotiva mi salvò dalle sevizie, dalla cattiveria e dalla pazzia e ciò avvenne grazie alla mia natura di donna ribelle.

Fu grazie anche ai miei animali fantastici che riempivano le mie giornate e che poi ho dipinto con cura, Fu grazie ancora a Renato che mi diede la mano e chiese la mia, perché per lui non sono mai stata una folle ma una donna libera e forte da amare e sposare. E con lui ho scelto la luce del Messico insieme agli altri surrealisti del gruppo compresa la cara Remedios che tanto mi manca.

Poi tutto a seguire è diventato più sobrio nella mia mente, financo a stamattina che piango di disperazione nella terra che è stata dei Maya che è anche la mia, dove la realtà è surrealtà e dove l’arcano insieme al mistero è eterno presente.

Oggi sono dentro la storia del Messico che è terra che uccide, che punta i fucili contro i suoi giovani figli senza ritegno e senza vergogna.

Oggi vedo di nuovo i fantasmi della follia nel buio del mio studio, nella casa dove nel caos domestico ho prodotto i miei lavori migliori con in mano un bambino e un pennello nell’altra. Sento pure vicino gli animali fantastici venuti a soccorso della mia mente ancora una volta per placare il dolore.

In mano ho ancora gli arcani maggiori ma senza distinguere quanto accadrà a Pablo e Gabriel. Io sto leggendo con gli occhi offuscati dall’amore di madre e per questo non posso vedere.

Sono pazza di nuovo, sono sempre Leonora ma comprendo di avere ancora qualche certezza.

Amo i miei figli con tutta me stessa da quando li ho generati.

Con loro ho trovato un sano equilibrio.

Oggi io piango per loro ma non posso fermarli e condizionare le loro libere scelte.

Io sono pazza se pazza è chi soffre per amore dei figli.

Se pazzo è chi vuole giustizia, i pazzi sono lì fuori.

Invece io credo, senza retorica, che il vero pazzo è chi spara.

NB: storia liberamente ispirata alla vita della pittrice surrealista Leonora Carrington (1917-2011) durante le ore precedenti il massacro di Tlatelolco di Città del Messico del 2 ottobre 1968