di Salvo La Porta

Al mio carissimo cugino, il N.H. Conte Primo Castiglione.

 

Effettivamente, la preparazione dell’artaru di San Giuseppe era, ed ancora oggi è, molto impegnativa per le famiglie, che intendono assolvere ad un voto o esprimere una prumisione, per impetrare l’intercessione di una grazia al Santo Patriarca.

Già mesi prima del diciotto di marzo, vigilia della solennità e giorno in cui i leonfortesi girano gli artara, hanno inizio le attività, che impegnano parenti, vicini e semplici devoti.

Tutti si danno da fare in un susseguirsi di lavori, che diventano in un crescendo vertiginoso sempre più coinvolgenti, confusi e frenetici. “ San Giuseppi, voli ‘u traficu”, la partecipazione confusa, a volte disordinata, vuole.

La prima cosa da fare è individuare il luogo più adatto, in cui cunzari, allestire l‘artaru; quindi, trovare la persona più capace nel confezionare le cuddure, ovvero i grandi pani, raffiguranti sul rilievo episodi della Passione di Cristo o della vita del Santo.

Sulla tavolata viene apparecchiata una mensa con le tovaglie buone e con le loro migliori stoviglie.

Se i devoti non possiedono tovaglie e stoviglie di pregio ed adatte alla bisogna, le chiedono in prestito e nessuno può osare rifiutarsi di metterle a disposizione del richiedente; sarebbe un oltraggio, un oltraggio gravissimo nei confronti di Sangiusippuzzu.

Altro, non ultimo adempimento è quello di impegnare il migliore artigiano, capace di allestire il cielo, un tondo dal quale partono merletti, veli e trine, che quali raggi di sole finiscono col piovere, per adagiarsi sulla mensa, volendo raffigurare l’immagine dell’incontro sacro dell’uomo con il Paradiso.

Il più bravo era lo zio Angilinu Fimminedda Castiglione, couturier qualificato, provetto e devotissimo del Santo, che si era specializzato a Marsiglia e che, a causa della raffinatezza dei modi gentili e manierosi, si era buscata da parte di alcuni zavurdi paesani la ‘ngiuria, il nomignolo di fimminedda.

Poiché tutti desideravano che la propria tavolata fosse quanto più ricca e meglio allestita possibile, tutti volevano trarre vanto della sua bravura e il povero sarto doveva fare i salti mortali, per soddisfare quante più richieste possibile e trovare mille plausibili scuse, per non offendere nessuno, a causa del suo doloroso, ma inevitabile, diniego.

Il Commendatore se lo era accaparrato per tempo, anche facendo leva sui buoni uffici della nipote, che ne aveva preso in marito uno dei figli.

Si, si può dire che se lo era accaparrato. Perché, come vi ho appena detto, si faceva a gara per conquistare la ricchezza dell’arte dello zio Angelino e la gente ci pensava almeno un anno prima ad impegnarlo.

Ma il Commendatore aveva il suo asso nella manica; oltre alla parentela, poteva fare leva sul profondo sentimento di amicizia, che da tempo lo legava al couturier.

Una volta, gli aveva tolto il figlio (proprio quello che ora era sposato con la nipote della moglie) dalle mani, dopo avere assistito ad un colloquio con il Preside e Podestà Giuseppe D’Alessandro, il quale lamentava lo scarso rendimento scolastico del ragazzo.

Angilì, Angilì”, gli aveva detto il Professore, “ tu si un galantuomu e anche io sono galantuomo; nun spenniri dinari a matula, non spendere soldi inutilmente, arritiritillu a to’ figghiu, ca’ nun è cosa so’, ritiralo dalla scuola tuo figlio, perché gli studi non sono adatti a lui”.

Lo zio Angelino ne avrebbe voluto morire, per quelle parole e, di corsa e quasi senza salutare, si era partito per andare a dirgli e a dargli il fatto suo a quel “malacunnutta”. Sapeva dove trovarlo.

Il Commendatore dietro di lui, nella determinazione di evitare i rimbrotti e le bastonate al ragazzo.

Non ne ebbe il tempo; perché, giunti alla sommità della calatedda della via Noto, Angelino furente di rabbia e dimentico del suo proverbiale aplomb, individuò davanti l’osteria di Pippinu Rapè tra altri scapestrati ragazzi il figlio.

Cosicché, con uno scatto felino e prima che il suo amico potesse fermarlo, prese la rincorsa per andargli a stampare con forza sulla guancia le raffinate cinque dita della sua mano.

Fortunatamente, però, il Commendatore “sine ulla interposita mora”, senza starci a pensare su, allungò il passo e glielo tolse dalle mani, dopo averne calmato l’ira, che rischiava di diventare “funesta”, ed avere riportato la pace tra padre e figlio, che di quel provvidenziale intervento gli restarono davvero grati.

Praticamente, tra i due era nata e si era consolidata nel tempo una profonda e sincera amicizia; una di quelle amicizie, per cui uno non ha bisogno di chiedere all’altro, perché sa che quello gli darà la risposta che si aspetta.

Da più di una settimana, quindi, lo zio Angelino si era andato ad installare a palazzo Lo Sicco in corso Umberto, facendo solo fugaci apparizioni nelle altre case, in cui era stato invocato.

Intanto, a Milocca il traficu, la confusione aumentava sempre di più; da Catania erano arrivate le sorelle Agatina e Teresina Rappè con la domestica Vicinzina e persino Carmelina e Paolo Palermo erano venute a prestare la loro opera.

“ Chi facci tosta avi Carmillina, mancu San Giusè ci po’; ‘ u lupu perdi ‘u pilu ma ‘u viziu mai”, pensava la signora Sarina mentre osservava la donna ormai anziana, che non smetteva di fare le moine al figlio Nino, memore delle passate visite fatte da ragazza sotto il carrubbo all’uccello raro, che quello custodiva gelosamente in gabbia.

Era davvero spregiudicata diventata e non aveva riguardi neppure per San Giuseppe.

Fortunatamente, però, solo lei si era accorta di quella spregiudicatezza. Lei, alla quale non sfuggiva nulla di nulla né di quello che avveniva a Milocca e neppure, nonostante lontana, di quello che succedeva a palazzo.

Gli altri erano troppo impegnati a lavorare, chi ad impastare il pane, chi a mondare e a friggerer cardi e polpette di mazzareddi e di finocchi selvatici; chi ad atturrare la mollica e chi a preparare la pignolata, i pani di Spagna, le sfinge (frittelle a base di farina, zucchero ed uova) e il torrone.

Tutti coordinava donna Sarina e per tutti aveva una parola, un delicato suggerimento, un complimento.

Per tutti, ma davvero per tutti; riservando, tuttavia, un’attenzione di maggiore riguardo (chissà perché?) al Parroco di Assoro ed alla sorella Petronilla che, appresa la lezione, si sforzavano di mantenersi lontani dalla preparazione e dalla degustazione dei dolci, che “su vilenu, pe’ diabetici!”

Rabbrividivano i due poveri fratelli al solo pensiero della notte passata in bianco, a causa delle troppe premure della padrona di casa…..

Era arrivato anche Tommaso, l’amatissimo figlioccio di Monsignor Lo Sicco, adesso giovane e gagliardo seminarista domenicano, in compagnia di un giovane confratello, altrettanto gagliardo e giovane, al quale aveva magnificato la tradizione leonfortese degli “artara di Sangiusè”.

Ad accoglierli con tutte le premure, di cui era capace la procace ragazza, la solita Serafina, appena riavutasi dallo sconvolgente e innocente malinteso con il “muto”, del quale era stata involontaria protagonista e che tanta legittima ansia aveva provocato al povero Pepè.

I due ragazzi si dimostrarono davvero felici di trovarsi a Milocca e si lasciarono coccolare dalle donne, che si affaticavano tra i calderoni e le padelle, che scoppiettavano l’abbondante olio di quelle terre, in cui annegavano dorandosi le ghiotte fritture dei cardi, delle polpette di verdure e delle sfinge…

“ Mangiattivilli, mentri su’ caudi caudi, mangiatele adesso che sono calde”, diceva la signora Sarina, dopo averle fatte asciugare dell’olio le sfinge e, adagiate su un piatto di portata, spolverate di zucchero e cannella.

I giovanotti gradivano, eccome se gradivano, mangiavano

ed innaffiavano con lo zibibbo, attenti a non farsi svuotare in un batter d’occhio il piatto da Pilaro che, sempre più ipocritamente ossequioso nei confronti del clero e dei ragazzi, voracemente trangugiava, cacciandosene in bocca una con la mano destra ed acchiappandone un’altra con la sinistra.

Ma più di buon grado accettarono l’accorata richiesta, che Pepè, dopo avere raccontato con le lacrime agli occhi l’involontaria disavventura di Serafina, fece loro di prendersi cura della giovane.

Se ne presero davvero cura…non aspettavano altro; in fondo, seminaristi erano e quando nell’anima e nel corpo si poteva portare sollievo ad un essere umano, specie se fragile e indifeso come Serafina, altro non avrebbero fatto che ottemperare al dettato evangelico.

Se ne presero cura e…Serafina si prese cura di loro, nella maniera che le era più congeniale.

Finalmente, a palazzo, lo zio Angelino aveva ultimato il suo capolavoro e da Milocca erano partiti il pane e tutte le vivande, che erano stati già messi in bella mostra sulla mensa riccamente imbandita, ai lati della quale erano stati collocati canestri colmi di pupidduzzi, ovvero piccoli panini per lo più a forma di buccellato, che sarebbero stati dati in offerta ai visitatori ed ai ragazzi, che avrebbero recitato le raziunedde, che richiamavano episodi veri o presunti della vita di San Giuseppe.

A mezzogiorno in punto della vigilia della festa, Monsignor Arciprete Lo Sicco, tra la commozione generale, procedeva alla benedizione della tavolata che, sino all’indomani a mezzogiorno, sarebbe stata visitata da parenti, amici e devoti, che avrebbero potuto godere dell’assaggio di quei gustosi prodotti.

A contemplare l’artaru dei Lo Sicco, così ricco e così sontuosamente allestito, la gente rimaneva amminchiunuta, stupita e ammutolita. Era certamente il più bello e il più ricco; dodici santi avrebbero mangiato alla mensa!

I ragazzi avevano già cominciato a girare e, soffermandosi uno dopo l’altro con lo sguardo fisso al maestoso dipinto che campeggiava sulla tavolata, alzavano il pollice, l’indice e il medio della mano destra, come a volere richiamare il mistero della Trinità, e solennemente declamavano, “San Giusippuzzu giustu e santu, ‘nmbrazza tiniti lu Spiritu Santu; vui la rosa, Maria lu gigghiu, datimi aiutu, spiranza e cunsigghiu, san Giuseppe, giusto e santo, in braccio tenete lo Spirito Santo, Voi siete la rosa, Maria il giglio, datemi aiuto, speranza e consiglio. Supra a via, ‘n capu a via, c’era un angilu ca ciancia, datimi un pupidduzzu, ca mi fazzu ‘a via, datemi un panino e andrò via per la mia strada.” ed altre raziuneddi recitavano.

Giravano un artaru dopo l’altro e in tutti ricevavano in omaggio un panino con il buco, che andavano ad inserire in una cordicella sino a formarne quasi una catena, mentre andavano via facendo il segno della croce e senza ringraziare, “ perchì grazie nun si dici”.

Tra gli altri artara belli, uno era quello allestito da una famiglia nel salone d’onore di quello che era stato il palazzo del Cavalier Turi Capra sempre in corso Umberto e di fronte la farmacia Mazza, presso cui Pilaro, avendo preso atto che dai Lo Sicco gli era andata buca, era riuscito ad imbucarsi per fare il santo, ovverosia uno dei commensali della sacra rappresentazione, che sarebbe stata celebrata dopo il mezzogiorno del diciannove.

Come tutti i “santi” si era predisposto a vegliare per tutta la notte in quella casa; ma , vinto dal sonno, si era messo a cercare il luogo più idoneo, in cui scacciare almeno un pisolino.

Lo trovò! Lo trovò, nel grande letto dove le donne avevano messo a dormire i loro lattanti ed a turno, quando sentivano un vagito, senza curarsi di sapere di quale bambino fosse il pianto, andavano ad offrire il seno.

Su quel letto si dispose Pilaro e quando una di quelle, al buio per non svegliare gli altri, gli porse il capezzolo, senza neppure accorgersi di quello che stava facendo, cominciò a ciucciare, sino a quando la poveretta soddisfatta per avere acquietato il bambino non si ricompose, uscendo silenziosamente dalla camera.

Solo dopo qualche minuto realizzò cos’era successo; ma che poteva fare? “Pazienza!”