di Josè Trovato

Oggi è il trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio. Nel 1992, a meno di due mesi dall’attentato che tolse la vita a Giovanni Falcone, nel cuore di Palermo un’autobomba uccise il magistrato Paolo Borsellino, gli uomini e le donne della sua scorta. Dappertutto, anche in provincia di Enna, il trentennale delle stragi porta cittadini, associazioni e istituzioni a ricordare le figure iconiche di quei magistrati che hanno dato la vita per combattere la mafia e affermare l’importanza del rispetto delle leggi, dei diritti e dello Stato.

Anche nella mia provincia di Enna sono numerose le iniziative in favore della memoria. E se non mi trovassi nella splendida isola di Pantelleria, dove pure questa mattina si svolgono manifestazioni per non dimenticare le vigliacche aggressioni contro uomini che lottavano contro la mafia, grazie a un’illuminata amministrazione comunale e alle iniziative dell’assessore Francesca Marrucci – e dove questo pomeriggio alle 18,30 al Circolo Ogigia presenterò il mio ultimo libro sulla mafia dell’entroterra, “Mafia 2.0-21 – Nel cuore della Sicilia comandano iene, sciacalli e i maggiordomi di Totò Riina” – oggi sarei a Leonforte.

A Leonforte questa sera si fa memoria, alle 19, nella piazzetta intitolata a Emanuela Loi, agente donna appena ventiquattrenne che perse la vita nella strage, mentre faceva il proprio dovere. Agli organizzatori, al presidente dell’associazione culturale Arcobaleno Ferdinando De Francesco, al sindaco Carmelo Barbera e alla presidente della Fidapa Maria Antonietta Buttafuoco, voglio dire che sono con loro, perché senza memoria non ci può essere nessun futuro. A Leonforte si è parlato spesso di memoria negli ultimi giorni. L’importanza di ciò che abbiamo fatto, l’importanza di rimandare al mittente certi tentativi di smettere di parlarne, l’importanza di ignorare la falsa moralità di cantastorie immorali –  dalle cui parole trasudano solo odio, invidia e frustrazione ma che poi, se proprio devono pronunciare il nome di un mafioso, lo fanno solo per leccargli il culo – è sotto gli occhi di tutti. La leggo negli occhi dei bambini di Leonforte. Qualche giorno fa l’ho vista negli occhi di centinaia di bambini del Grest nel chiostro della chiesa dei Cappuccini. La vedo nei volti degli appartenenti alle forze dell’ordine, che non smettono di lavorare ogni giorno e di lottare contro il crimine. L’importanza del mio impegno sta anche lì. E non smetterò di occuparmene. Piaccia o no.

Voglio approfittare di questa data importante per raccontarvi una storia. Una storia che magari per alcuni non farà “notizia”. Ma personalmente ritengo che debba smuovere qualcosa nella coscienza civile della gente. Protagonista è il boss Raffaele Bevilacqua, potentissimo e storico esponente della mafia ennese, già boss provinciale di Cosa Nostra. Nel 2001 era stato Bernardo Provenzano a nominarlo capo provinciale. Bene. Nel 2018 Bevilacqua, nonostante avesse preso l’ergastolo, all’improvviso si trovò libero di partecipare al matrimonio del figlio. Quale data scelsero gli sposini? Il 19 luglio. Una coincidenza? Se volete, pensatelo pure. Peccato che la tesi dell’accidentalità del giorno prescelto venga messa quantomeno in dubbio dalle indiscrezioni che provengono da Roma, dove Bevilacqua fu recluso prima di ottenere i domiciliari. Nonostante si trovasse al 41 bis, lui che era detenuto da anni all’ergastolo, stranamente si ritrovava lì, al carcere di Rebibbia, liberissimo di passeggiare a braccetto con altri mafiosi come lui, di fare amicizia con un boss della ‘ndrangheta, uno di quelli che gestiscono il traffico internazionale della droga (qualcosa sulla sua amicizia con uno ‘ndranghetista si può leggere pure nell’ordinanza Ultra). A quanto pare, inoltre, Bevilacqua si trovò a partecipare pure a un corso per detenuti. Ed è lì, in quel contesto, che avrebbe espresso sentimenti di rabbia nei confronti di Paolo Borsellino. Risentimento, in particolare per i primi interrogatori – che avrebbe condotto Borsellino – di un pentito che lo accusò. Non è noto esattamente quale interrogatorio Bevilacqua non riuscisse a “perdonare” a Borsellino (quasi che aver fatto il proprio dovere fosse una colpa!), sta di fatto che il magistrato ne condusse davvero, di interrogatori, nel cuore della Sicilia. Ho avuto modo di verificarlo. Tra gli altri, interrogò Narduzzu, al secolo Leonardo Messina, uno che Bevilacqua conosceva abbastanza. Il fenomeno del pentitismo nacque in quegli anni e non fece piacere, notoriamente, ai boss mafiosi. Alla luce di ciò che Bevilacqua avrebbe detto (e scritto) su Paolo Borsellino, a noi pensare ad una coincidenza, per la scelta di quella data, viene un po’ difficile. Personalmente ritengo che trasformare il 19 luglio in un giorno di festa non sia stata una grande idea. E personalmente sono convinto che quella scelta sia stata tutt’altro che casuale. Ma è il mio parere. Credo che ci vorrebbe più rispetto.

Chi è che non rispetta la memoria? Chi calpesta la memoria? In questi anni, leggendo le intercettazioni dei mafiosi, ne ho viste di tutti i colori. Mi immagino quei gip, quei sostituti procuratori, quei giudici di tribunale, quei magistrati del Riesame, quei consiglieri o presidenti di corti d’appello, che sono costretti a leggerle a loro volta. Mi è capitato di leggere le parole di un mafioso di Enna, che intercettato, disse candidamente: “Ci siamo liberati di Falcone e Borsellino”. E certo perché lui, che nel 1992 avrà avuto si e no quattordici anni, evidentemente si è liberato di un fastidio. Capita di leggere di altri delinquenti che definiscono Borsellino un “pezzo di m.”. Ci sono tanti “filosofi” della mafia, tanti sedicenti competenti in giro. Mi capita di leggerli persino sui social. Non sempre offendono la memoria delle vittime, ma di certo calpestano il loro insegnamento. Dicono che chi parla di mafia commette una “speculazione”. Capita di leggere che chi denuncia i mafiosi danneggia la propria Terra. Dicono che le cronache raccontano “mezze verità”, ma non fanno nulla per far emergere “l’altra” metà di cui parlano, se davvero esiste.

Ebbene, chi oggi dimentica l’importanza della memoria, chi ancora oggi si volta dall’altra parte di fronte ai crimini, chi non denuncia, chi delega sempre agli altri la possibilità di fare la cosa giusta, chi sostiene che la mafia “non finirà mai”, chi è “contiguo e dunque complice”, per citare, parafrasandole, le parole di Paolo Borsellino, pone sé stesso al medesimo livello dei massacratori del 1992.

Oggi non è più tempo per camminare con i piedi in due corsie parallele, perché queste due corsie, mafia e Stato, viaggiano in direzioni diverse. E, semmai avessero percorso lo stesso sentiero, quello non era lo Stato, ma settori deviati che non rappresentano nessuno. Personaggi oscuri che saranno anche riusciti a farla franca, per la giustizia terrena, ma che alla fine non hanno certo vinto. Per questo possiamo dire che oggi, a trent’anni  dalle stragi, si deve scegliere da che parte stare. Poi essere coerenti.

(“Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. Paolo Borsellino)