di Francesca Maria Germanà

Sarebbe piaciuta Agira a Paolo Borsellino, amante di storia, arte e letteratura. Avrebbe ritrovato un po’ della sua Palermo nei capitelli della chiesa del Santissimo Salvatore in stile romanico, tutti diversi come quelli del Loggiato del Palazzo dei Normanni. Avrebbe rivisto la Sicilia variegata, multietnica nei giovani radunati nella sala dell’Abbazia Reale, dominata da una splendida cuspide maiolicata.

La sua immagine era lì, il suo sguardo pensieroso ed espressivo, che da trent’anni ha preso il posto del suo corpo dilaniato dal tritolo, era lì. Le sue idee erano lì, raccontate insieme alle sue passioni dalla voce rassicurante, familiare, trascinante della figlia Fiammetta. Chissà perché aveva scelto per lei questo nome! Forse perché temeva che sarebbe potuta diventare adulta prima del tempo e con quel nome avrebbe protetto ed eternato la sua fanciullezza, i suoi sogni. Ma, l’abbiamo già imparato, neanche Calvino, col suo titolo fiabesco “I sentieri dei nidi di ragno” è riuscito a preservare la fanciullezza di Pim!

E allora meglio affrontarla subito questa realtà!  Fiammetta racconta di essere cresciuta nelle strade di Palermo, di aver fatto volontariato, di aver viaggiato, di essersi creata un’identità prima della strage di via D’Amelio. Dopo il 19 luglio 1992 ha continuato a impegnarsi nel sociale, a studiare, a stare tra la gente e a parlare con i giovani. Perché, dice, bisogna cambiare il modo di fare commemorazione. Bisogna fare memoria attiva. Con questa storia bisogna fare i conti ogni giorno. E aggiunge, che l’impegno giornaliero viene richiesto non solo a lei e ai suoi familiari, ma a tutti. Cita Rita Atria: “quando non seguiamo le regole, è l’anticamera della Mafia”. Ai ragazzi curiosi Fiammetta racconta la sua vita e la sua morte, definendola vittima della solitudine. Poi rimarca che anche Falcone e Borsellino sono stati lasciati soli dallo Stato in cui credevano, che non ha saputo difendere i suoi uomini migliori. E continua dicendo  che per le loro morti ci sono responsabilità esterne alla Mafia, uomini i che non hanno fatto il proprio dovere. Anche il “non fare” permette alle organizzazioni criminali di  vincere. La verità a cui uomini come mio padre hanno dedicato la propria vita, riguarda anche voi, continua Fiammetta, poiché un Paese che vive nella menzogna, non è un Paese libero e democratico. Quando non si riesce a fare verità, si lede il diritto di tutti ed è compromesso anche il futuro di voi giovani. A chi le chiede se riesce a perdonare chi le ha ucciso il padre e se prova rancore, Fiammetta cerca tra le parole e ne sceglie una “comprensione”. La ripete più volte, quasi per convincersi e per convincere che sia quella giusta. Sì, lo è. Perché comprendere è l’unione di “prendere con”, quasi un portare con sé verso una direzione “altra”, fuori dal solco, che appare facile da percorrere, tracciato dalla Mafia. Si comprende solo se si sa ascoltare, capacità che Fiammetta evoca parlando del padre e di Giovanni Falcone. Li rivede bambini che giocano al pallone nel quartiere della Kalsa. Che crescono facendo esperienza dentro la realtà,  inseguendo un pallone che difficilmente si lascia imprigionare da un solco e capiscono che il loro sogno di cambiamento si può raggiungere applicando “la cura”, parlando con tutti, con le persone diverse, da uomo a uomo, con umiltà. Così Falcone e Borsellino  hanno cambiato l’approccio col mafioso, riuscendo a diventare credibili.

Fare la propria parte, non abbassare la guardia, lottare per la verità, sono queste le indicazioni che arrivano ai ragazzi di Agira, alcuni cresciuti tra le pietre del quartiere arabo, sotto le palme e le maioliche che tanto hanno in comune con Palermo. La legalità come il pallone è alla portata di tutti, basta solo seguirla! Ora!