Rosemarie camminava verso casa con passo spedito seppur calzando mocassini dalla pelle screpolata dall’usura e sformati dagli anni ma che, a dispetto delle premesse, non sottraevano eleganza alla sua andatura. Stringeva con la mano una piccola borsetta, mentre con l’altra teneva stretto al collo il soprabito scuro che l’avvolgeva a protezione degli ultimi strascichi di freddo umido anche se, quel pomeriggio, il primo tepore primaverile, annuncio della nuova stagione, sfiorava piacevolmente le sue candide guance. Un fresco venticello invece disperdeva le sue ciocche bionde, che sfuggivano dallo chignon fermato alla nuca da un fermaglio di modesta fattura, al pari dei suoi pensieri che aleggiavano leggeri e fluttuanti. L’odore della polvere che da cinque anni ammorbava l’aria sfiorava appena le sue narici inebriate invece dalla giunchiglia che risvegliava un sano ottimismo e i suoi occhi vividi, memori di antiche visioni, incrociavano solo superficialmente gli sguardi dei passanti e delle altre donne delle rovine intente a raccogliere per la città quanto potevano per la ricostruzione. Distrattamente, per la fretta di tornare a casa, aveva urtato con il gomito una donna dalla lunga gonna a fiori che non riusciva a celare le calze disastrate e che con fiero piglio germanico, nonostante l’aspetto sciatto e trasandato, l’aveva redarguita con un’occhiata accigliata e risoluta.
Era il 1950 e a Berlino la primavera e il riverbero della luce aveva la meglio sui cumuli di macerie, era un giorno di sole e tra i banchi del mercato alimentare le note di colore della frutta, come pennellate sul grigio, parevano un inno di fiducia verso un futuro migliore. Rosemarie ogni venerdì, dopo la sua mattina trascorsa a lavorare sapeva di trovare dopo l’ora di pranzo una sorpresa nella sua cassetta delle lettere. Era diventata vezzosa consuetudine ricevere cartoline illustrate, probabilmente da un anonimo corteggiatore, orgoglio e vanto per una donna dallo spirito artistico, atteso appuntamento settimanale. Rettangoli di carta ruvida e leggera, riproduzioni di acquerelli in stile vittoriano di fiori, soprattutto rose, ma anche uccelli dal piumaggio delicato e frutti. Nessuna firma, nessun messaggio nel retro, solo la trascrizione del suo indirizzo con una grafia inconfondibilmente maschile.
Rosemarie le conservava con cura più per la bellezza del gesto in sé, per la preziosità dell’opera e per la gioia dell’attesa piuttosto che per la curiosità di conoscere il nome del mittente a cui, peraltro, non riusciva a dare un volto.
Una trepidazione che ogni settimana accompagnava il suo sentire ma che invece, in quell’occasione, era stata bruscamente interrotta dalla ricezione di una inaspettata cartolina ocra dell’ufficio cimiteriale con un timbro di spedizione antecedente di due mesi, lontana dalla tedesca puntualità che nel dopoguerra giaceva sfiancata, compagna di quel cumulo di macerie lasciate dai bombardamenti alcuni anni prima nei vicoli della città, seppellita insieme a quanto della vecchia Germania era da cancellare o che si preferiva ancora non ricordare.
La cartolina era un chiaro invito a recarsi al cimitero, luogo di inquietudine per la ragazza ed emblema di un passato segnato dal dolore di una guerra che aveva cancellato intere famiglie come la sua. Il fratello, ufficialmente dato per disperso, non aveva più fatto ritorno dal fronte ma lei sapeva in cuor suo che era morto in Italia servendo la patria, senza nemmeno aver avuto una lapide in pietra che portasse il suo nome. Troppe giovani vite erano state recise nel fiore migliore degli anni ma il dolore tedesco, per il pudore di una colpa collettiva più grande, restava soffocato nel cuore di molti e privato di una voce propria e di un proprio lamento.
Di quel tempo andato, prima della terribile guerra, era rimasto per Rosemarie il ricordo di Parigi e dell’Ecole des beaux arts, degli amici francesi mai diventati nemici, degli acquerelli all’ombra di Montmartre che tanto le piaceva dipingere e della sua vecchia vita fresca e leggiadra. Per questo amava tanto le belle cartoline dello sconosciuto dai delicati motivi floreali a firma “C. Klein”, come il suo cognome per curiosa coincidenza, prezioso dettaglio dell’opera. Aprire la cassetta delle lettere era il suo modo di rivivere, almeno con la mente, le antiche speranze di giovane artista soffocate ore dal rumore monotono dei tasti di una macchina da scrivere, rifuggire il suo attuale lavoro da dattilografa, dentro un ufficio all’ombra della cattedrale di Sant’Edvige senza più la sua cupola, in una città senza più un cuore verde dagli alberi maestosi che, quasi per dovere ed obbligo di natura, avevano lasciato il posto alle piante di patate più adatte alla fame del tempo.
La cartolina, dal colore dell’inquietudine, non lasciava scelta alla ragazza che avrebbe preferito evitare la visita di quel luogo poetico di malinconica pace, popolato da suoi familiari e conoscenti ormai spoglie mortali, più di quanti ne fossero rimasti in vita. L’istinto le suggeriva di strapparla per poi cestinarla, tuttavia, dopo attimi di esitazione la spinse a stringerla con rabbia tra le mani, a ripiegarla e a conservarla nella borsetta e a recarsi più per dovere che per scelta all’indirizzo indicato. Modificando così i piani della giornata, la ragazza si mise in cammino con lo stesso passo di prima ma con la mente offuscata dai pensieri che ora avevano assunto una consistenza più intensa.
Al di là delle angosce e delle aspettative, la luce filtrata dagli ippocastani del cimitero disegnava sul ciottolato forme di incanto, i passerotti annunciavano anche tra le lapidi la primavera e le ortensie abbozzavano tocchi di colore come i suoi acquerelli di un tempo. Rosemarie pensò che i caduti tedeschi meritavano quella pace, per lo meno le brave persone che aveva conosciuto e che il mondo tacciava indistintamente come naziste, senza distinguere le piccole storie, senza conoscere chi si era silenziosamente battuto contro il potere come suo padre, seppure uomo dai burberi modi, o tanti suoi amici di infanzia. Solo che quei morti erano agli occhi del mondo meno morti di altri e tutto ciò non poteva tradursi in parola per rispetto di altre immani tragedie. Vagò perdendo la cognizione del tempo tra indistinti pensieri e antichi ricordi che dolevano come vecchi ferite e, proprio quando la commozione ebbe il sopravvento e un rivolo di lacrime rigò il su volto, si trovò di fronte l’ufficio preposto. Si fermò di colpo perché sull’uscio, un uomo bruno e distinto con addosso un camice scuro, poggiato alla porta con una spalla, le accennò un cordiale sorriso.
– Benvenuta signorina Klein – disse rivolgendosi a lei senza aggiungere altro ma muovendo gli angoli della bocca per accennare un secondo sorriso
– La stavo aspettando – aggiunse.
Quell’uomo conosceva il suo cognome e non solo probabilmente.
Rosemarie aprì la borsetta per ricavarne un fazzoletto di cotone ben ripiegato per asciugare e nascondere le lacrime.
– La cartolina probabilmente non è arrivata in tempo – continuò l’uomo.
– Mi dispiace tanto e, pur essendo consapevole che non sono i ritardi della consegna della posta a fare grande un Paese, devo annunciarle una triste notizia. Già due mesi fa i resti di sua zia, nonostante il mio tentativo di rintracciala, non sono stati considerati di rilevante importanza da mantenere la tomba dove giaceva, che ahimè, non essendo stata reclamata da alcun familiare, è andata distrutta. Mi dispiace signorina ma la mancanza di lungimiranza, il giusto riconoscimento del merito degli artisti ed il mancato discernimento delle opere d’arte dalle brutture è quello che fa piccolo un Paese. A quanto pare la nostra Germania non è da meno, non ha evitato l’errore. –
Rosemarie non capiva. Aveva intuito che l’uomo fosse l’addetto dell’ufficio cimiteriale ma non riusciva a comprendere a cosa si riferisse, non avendo contezza di chi fosse sua zia e la sua espressione del volto esortò l’uomo a continuare a parlare.
-Le racconterò una storia, l’aiuterà a comprendere. Lei certamente conoscerà le cartoline di Catherine Klein –
Rosemarie trasalì perché le conosceva eccome. Le riceveva puntualmente ogni settimana.
– Era una donna splendida e intuitiva che a Berlino gestiva un atelier di pittura ed insegnava alle giovani donne a dipingere. Aveva fatto del suo nome la sua personale cifra stilistica da affiancare al soggetto dipinto. Mia madre era la sua allieva prediletta ed io, bambino e con tanta voglia di apprendere, la seguivo e ascoltavo le sue lezioni. La guerra l’ha portata via con sé ed ha seminato distruzione tanto che i capannoni che contenevano oltre duemila opere della povera Catherine non hanno avuto sorte migliore. Di lei rimangono solo pochissime opere e le riproduzioni -.
-Mia zia? Non ho mai saputo di averne una –
-Si, lo so. Per orgoglio, mi dissero, la signorina Klein e suo padre interruppero i rapporti dopo la sua nascita signorina Rosemarie, ma fu lei stessa a scegliere il nome del fiore che porta e che le si addice divinamente bene. Ho appreso quanto le sto raccontando da mia madre cui fu assegnata la missione di rintracciarla e che passò a me il testimone quando temeva e a ragione di non sopravvivere alla guerra. Lei ama i fiori Rosemarie?
-Sì, li amo e non li recido ma li dipingo per dar loro vita perenne, abbiamo bisogno di vita.
– Adesso ha un motivo in più per amarli. Continui a dipingere come sua zia, diventi lei la nuova Klein, maestra di acquerelli, di bellezza e di vita. –
Sembrava incredibile ma aveva inconsapevolmente amato l’autrice di quelle splendide cartoline dipingendo acquerelli a Montmartre. Aveva tenuto in vita, senza saperlo, un legame con il sangue del suo sangue e adesso sapeva da dove partiva l’eco di quella passione per l’arte e per i fiori.
– Le cartoline del venerdì le ha spedite lei? – chiese Rosemarie speranzosa poi di dare un volto al suo anonimo corteggiatore–
– Anche io amo i fiori e la rinascita – rispose l’uomo senza aggiungere altro.
La risposta bastò a Rosemarie, e non chiese null’ altro consapevole che in quel luogo, scrigno di un tempo passato e tempio di dolore, potevano rinascere i fiori.
Fiori reali, emblema di vita e fiori dipinti espressione dell’arte.
Pareva perfino buffo che un cambiamento poteva partire proprio da un ufficio cimiteriale e da un vecchio legame che apriva le porte alla speranza.
Le guance della ragazza ripresero il colore delle rose che cancellò ogni traccia delle lacrime appena versate.
Salutò con garbo e riprese il cammino lasciando slacciato il suo impermeabile.
Era certa che sarebbe tornata ancora ma con passo più lento magari per chiedere il nome del gentile impiegato dal camice scuro.
Oppure per fargli scegliere proprio un camice nuovo di un colore più adatto alla bella stagione.
Anche i camici hanno diritto ad una rinascita.
E magari, chissà, la primavera in arrivo avrebbe aperto le porte anche all’amore.