Quella relativa alle pensioni è una questione che da sempre interessa le persone e le autorità di Governo, si tratta infatti di un problema comune e di difficile soluzione in quanto sono contrapposti dilemmi di natura divergente.  Da una parte i lavoratori, che vorrebbero ottenere il diritto alla pensione con tempi che consentano loro di poter godere ancora di una piccola porzione della loro esistenza in modo estraneo all’attività lavorativa, dall’altra parte, invece, le autorità hanno il problema di come reperire le risorse necessarie affinché questa opportunità possa attuarsi. Negli ultimi anni si sono susseguite numerose riforme, che hanno con tutta evidenza ottenuto l’effetto di prolungare i tempi necessari per consentire ai lavoratori l’accesso alle tanto agognate prestazioni pensionistiche. La prima grande riforma fu quella del governo Dini, la Legge 335/95, che introdusse a partire dal primo gennaio 1996 il metodo contributivo per il calcolo della pensione; tale metodo ha sostituito quello in vigore in precedenza ossia quello retributivo, molto più generoso. Il metodo contributivo, infatti, si fonda sulla totalità di quanto effettivamente versato da ciascun lavoratore nel corso della sua vita lavorativa, mentre il metodo retributivo si fondava esclusivamente sulla retribuzione effettivamente percepita al termine della propria attività. A tal proposito, non è raro che qualche lavoratore, ancora oggi, pensi che un aumento di stipendio negli ultimi, pochi, anni di lavoro possa comportare notevoli vantaggi pensionistici, ma così non è. Attualmente si discute molto su tutte quelle che sono definite “quote” a partire da quota 100, 101, 102, 103, 104 ossia la combinazione di età anagrafica e anni di contributi versati che consentirebbero l’accesso alla pensione. Le teorie degli studiosi, dei tecnici, dei politici, dei professori sono alquanto differenti tra loro. Da una parte i tecnici, nonostante l’applicazione del metodo contributivo, vorrebbero il continuo innalzamento dell’età che permette l’accesso alla pensione, in quanto ritengono che “soli” 41 anni di lavoro non siano sufficienti a garantire le future prestazioni, in modo particolare per i giovani; si tratta di una “lotta tra poveri”; già oggi si può ritenere che i giovani difficilmente potranno vantare in futuro 41 anni di lavoro continuativo, in considerazione dell’innalzamento del livello culturale e dell’età scolastica, nonché delle carriere lavorative alquanto discontinue. In questa logica, avere 41 anni di lavoro senza interruzione appare per un giovane una questione, o meglio un sogno, non raggiungibile con facilità a differenza di coloro che attualmente potrebbero avere i 41 anni di anzianità lavorativa, che rappresentano ancora una discreta quota di persone, a mio avviso di numero comunque non eccessivo soprattutto considerando il fatto che 41 anni di lavoro non sono pochi. I tecnici del governo e gli opinionisti reputano che il problema sia da una parte dovuto alla denatalità oltre che all’età pensionabile, reputata eccessivamente  ridotta. Questo è fonte di sconto tra la politica e i tecnici, o meglio tra una parte di politica e una parte di tecnici e addetti ai lavori. Ciò detto, in questa situazione non si considera mai che attualmente lo Stato italiano sta erogando numerose pensioni a persone che hanno percepito il trattamento pensionistico dopo pochi anni di attività lavorativa, spesso prima del compimento del quarantesimo anno di età. Come da fonte pubblicata dal Sole 24 ore il 29 agosto, attualmente in Italia ci sono circa 157.000 trattamenti pensionistici erogati da oltre quarant’anni. Da indagine pubblicata dalla Stampa sempre il 29 agosto, un’impiegata nata nel 2004 che sta lavorando da due anni, maturerebbe il diritto alla pensione di vecchiaia, con le attuali regole, a 70 anni e quattro mesi di età. I calcoli relativi a tali valori sono effettuabili, da tutti gli interessati, tramite il portale INPS che mette a disposizione l’applicazione PENSAMI, acronimo che sta per PENSione A Misura”. Questi dati non possono e non devono sfuggire all’opinione pubblica, anche se raramente ne fanno cenno coloro che sono deputati alle decisioni, come non può sfuggire il fatto che talune pensioni siano erogate, tutt’oggi, con un metodo di calcolo esclusivamente retributivo e quindi non proporzionato a quello che è stato versato durante la vita come invece è preteso dall’attuale metodo contributivo. Il mio parere sarebbe quello di spostare l’attenzione non tanto su quella che è una “guerra tra poveri”, ossia tra le nuove generazioni e quelle persone che dopo 41 anni di lavoro chiederebbero di poter accedere alla pensione, anche per poter essere di aiuto ai figli, ma andando a valutare quelli che sono i trattamenti pensionistici erogati con metodi retributivi e che garantiscono delle vere e proprie rendite che tali non dovrebbero essere o, per meglio precisare, che non sono proporzionate a quanto realmente versato. Per il contemperamento, potrebbe essere utile lo strumento dell’ISEE, già impiegato per l’erogazione di aiuti di Stato; tale soluzione, ovviamente, porrebbe dei profili di dubbia costituzionalità in quanto andrebbe ad intaccare i così detti diritti acquisiti. Ci sarebbe da domandarsi, tuttavia, se anche i diritti di chi sta versando i contributi ora non meritino pari tutela, senza essere frettolosamente accantonati a fronte di vincoli di bilancio.