L’ordinamento italiano delle professioni regolamentate rivela una contraddizione che genera riflessioni significative sulle decisioni di politica pubblica adottate negli ultimi trent’anni. Da un lato, i pazienti abbandonano la ricerca di assistenza sanitaria a causa dell’irreperibilità di medici specializzati, dall’altro le sale giudiziarie sono sovraccariche di contenziosi affidati a una platea sempre più vasta di legali. Questo squilibrio tra richiesta e disponibilità di professionisti richiede un esame accurato che prenda le mosse dagli ostacoli posti all’ingresso nelle rispettive carriere professionali.

Due percorsi, due ostacoli diversi

Il test d’ingresso: la barriera iniziale per i medici

Per chi aspira a diventare medico, il principale ostacolo si presenta all’inizio del percorso formativo: il test d’ingresso alle facoltà di medicina. Questo sbarramento iniziale, che ha cambiato forma nel corso degli anni ma che rimane sostanzialmente un test selettivo anche ad oggi, determina drasticamente il numero di studenti che potranno intraprendere gli studi medici.

Il numero chiuso rappresenta una scelta legislativa che limita l’offerta di professionisti sanitari sin dalla fase formativa, creando un collo di bottiglia che produce effetti a cascata sull’intero sistema sanitario nazionale. Chi supera questo primo ostacolo, tuttavia, si trova di fronte a un percorso che, pur impegnativo, conduce con ragionevole certezza all’esercizio della professione.

L’esame di abilitazione: la barriera finale per gli Avvocati

Per chi aspira a diventare avvocato, invece, il percorso è invertito. L’accesso alle facoltà di giurisprudenza è libero, senza limitazioni numeriche. L’articolo 2 della legge professionale forense stabilisce che possono essere iscritti coloro che, in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito a seguito di corso universitario magistrale, hanno superato l’esame di Stato.

Il principale ostacolo si presenta alla fine del percorso formativo: l’esame di abilitazione alla professione forense. L’articolo 46 della legge n. 247 del 2012 disciplina un esame particolarmente selettivo che si articola in tre prove scritte e una prova orale, con criteri di valutazione rigorosi.

Il sistema di correzione incrociata

Per garantire l’imparzialità e evitare “sedi facili”, l’esame di abilitazione forense prevede un meccanismo particolare: i candidati sostengono le prove scritte presso la sede regionale di residenza, ma gli elaborati vengono corretti in un’altra sede italiana, determinata mediante sorteggio. Come stabilito dall’articolo 46, comma 5, “il Ministro della giustizia determina, mediante sorteggio, gli abbinamenti per la correzione delle prove scritte tra i candidati e le sedi di corte di appello ove ha luogo la correzione degli elaborati scritti”.

Questo sistema mira a garantire uniformità di valutazione su tutto il territorio nazionale, evitando disparità territoriali che potrebbero favorire candidati di determinate sedi. La giurisprudenza ha confermato la legittimità di questo meccanismo, riconoscendo ampia discrezionalità tecnica alle commissioni esaminatrici.

Il percorso formativo: impegno comparabile

Un elemento spesso trascurato nel dibattito pubblico riguarda la comparabilità dell’impegno richiesto per accedere alle due professioni. L’impegno per diventare avvocato non è sicuramente inferiore a quello per diventare medico.

La formazione forense

Il percorso per diventare avvocato richiede una laurea magistrale in giurisprudenza di durata quinquennale, seguita da un periodo di tirocinio professionale e scuola di specializzazione. L’articolo 41 della legge professionale forense stabilisce che il tirocinio è svolto in forma continuativa per diciotto mesi e che il tirocinio professionale consiste nell’addestramento, a contenuto teorico e pratico, del praticante avvocato finalizzato a fargli conseguire le capacità necessarie per l’esercizio della professione di avvocato.

Oltre al tirocinio pratico, l’articolo 43 prevede la frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a diciotto mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale con un carico didattico non inferiore a centosessanta ore per l’intero periodo.

Il superamento dell’esame di Stato richiede la dimostrazione di competenze articolate. Come stabilito dall’articolo 46, comma 6, la valutazione deve basarsi su criteri quali chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione, dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici, dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati.

La selettività dell’esame

La giurisprudenza ha confermato la rigorosità dell’esame di abilitazione forense. Come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa, il giudizio della commissione esaminatrice comporta una valutazione essenzialmente qualitativa della preparazione dei candidati e attiene alla sfera della discrezionalità tecnica, censurabile unicamente per evidente superficialità, incompletezza, incongruenza o manifesta disparità.

La giurisprudenza di merito ha chiarito che il voto numerico attribuito dalle commissioni agli elaborati esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale, contenendo in sé stesso la motivazione senza bisogno di ulteriori spiegazioni.

La domanda cruciale: vale la pena?

Di fronte a questo scenario, emerge una domanda fondamentale che molti giovani si pongono: vale la pena studiare tanto da avvocati per poi, se va bene, andare a lavorare per studi enormi e strutturati con un compenso irrisorio? Oppure è meglio tentare la strada di medicina, dove una volta entrato in facoltà la strada è in discesa?

La realtà del mercato forense

La saturazione del mercato forense ha prodotto una situazione paradossale. Molti giovani avvocati, dopo aver superato un esame di abilitazione particolarmente selettivo, si trovano costretti ad accettare posizioni presso grandi studi legali con compensi inadeguati rispetto alla preparazione acquisita e all’impegno profuso.

La competizione crescente ha innescato una spirale al ribasso dei compensi professionali, particolarmente penalizzante per chi si trova nelle prime fasi della carriera. I portali di intermediazione legale hanno ulteriormente accentuato questo fenomeno, trasformando la prestazione intellettuale in una commodity dove il prezzo diventa spesso l’unico criterio di selezione.

La strada in discesa della Medicina

Al contrario, chi riesce a superare il test d’ingresso alle facoltà di medicina si trova di fronte a un percorso che, pur impegnativo, conduce con ragionevole certezza all’esercizio della professione in condizioni economicamente sostenibili. La carenza strutturale di medici garantisce opportunità occupazionali e livelli retributivi adeguati.

Questa asimmetria solleva interrogativi sulla razionalità delle scelte individuali. Molti degli avvocati che oggi devono ingaggiare la lotta dei prezzi per sopravvivere professionalmente ben avrebbero potuto essere dirigenti medici in reparti ospedalieri, contribuendo a risolvere la carenza di professionisti sanitari che affligge il sistema italiano.

Dal cinema alla realtà: l’evoluzione del mercato medico

I film di Alberto Sordi: uno specchio dell’epoca

Film come quelli interpretati da Alberto Sordi nel ruolo del medico di famiglia – “Il medico della mutua” (1968) e il suo seguito “Il prof. dott. Guido Tersilli, primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue” (1969) – rappresentano oggi la preistoria della professione medica in Italia.

Queste pellicole raccontavano un’epoca in cui i medici, per ottenere pazienti mutuati e quindi a carico dello Stato, erano disposti ad ogni compromesso. Le trame satiriche descrivevano un mercato sanitario saturo, dove i professionisti dovevano competere aggressivamente per acquisire clientela, ricorrendo talvolta a pratiche al limite della deontologia professionale.

Dalla satira alla tragedia

Oggi la carenza di medici è così evidente che i film dell’epoca appaiono mere barzellette, racconti di un mondo completamente ribaltato. Ma all’epoca erano storie non lontane dalla realtà, riflettendo effettivamente dinamiche di mercato esistenti nel sistema sanitario italiano degli anni Sessanta e Settanta.

Il passaggio da un eccesso di offerta a una carenza strutturale di professionisti sanitari rappresenta uno dei più clamorosi fallimenti delle politiche pubbliche italiane degli ultimi decenni. Mentre quarant’anni fa i medici dovevano competere per acquisire pazienti, oggi i pazienti devono competere, e pagare, per trovare medici disponibili.

La politica ha sbagliato: meno Medici, più Avvocati

Le scelte scellerate dei Governi

La politica ha sbagliato nelle sue scelte passate, producendo un sistema squilibrato: meno medici, meno cure, più avvocati, più cause. Questa formula sintetizza efficacemente il paradosso delle professioni intellettuali in Italia.

I governi che si sono succeduti hanno voluto pochi camici bianchi e molte toghe, senza considerare le conseguenze di lungo periodo di questa scelta. Il numero chiuso per medicina è stato mantenuto rigido anche quando i segnali di carenza di professionisti sanitari erano già evidenti, mentre l’accesso alla professione forense è rimasto sostanzialmente libero, producendo una proliferazione incontrollata di avvocati.

Le conseguenze sociali

Questa scelta ha prodotto conseguenze drammatiche per la collettività. Da un lato, cittadini che rinunciano alle cure mediche per l’impossibilità di trovare specialisti disponibili o per i tempi di attesa insostenibili. Dall’altro, aule dei tribunali costantemente affollate di controversie, alimentando un contenzioso che assorbe risorse economiche e umane ingenti.

La Cassazione civile ha riconosciuto che “le incompatibilità della professione di avvocato previste dalla legge professionale mirano a tutelare, assicurare e garantire l’autonomia e l’indipendenza dell’avvocato, anche per evitare condizionamenti di qualunque genere, al fine di permettere al professionista di svolgere la funzione di assicurare al cittadino la piena ed effettiva tutela dei suoi diritti e ciò in considerazione del rilievo costituzionale del diritto di difesa”.

Tuttavia, questa tutela dell’autonomia professionale perde significato quando il professionista è costretto a lavorare per compensi inadeguati a causa della saturazione del mercato.

Ma gli italiani cosa vorrebbero?

La domanda fondamentale

La domanda che dovrebbe guidare le scelte di politica legislativa è semplice: cosa vorrebbero gli italiani? Preferirebbero avere accesso garantito a cure mediche di qualità o avere a disposizione un numero sovrabbondante di avvocati disposti a lavorare per cifre modeste?

La risposta dovrebbe essere ovvia, eppure le scelte legislative degli ultimi decenni sembrano aver privilegiato la seconda opzione. La società italiana ha investito massicciamente nella formazione di professionisti del diritto, trascurando contestualmente la necessità di garantire un numero adeguato di professionisti sanitari.

Il diritto alla salute vs. il diritto di difesa

Entrambi sono diritti costituzionalmente garantiti, ma la loro effettività dipende dalla disponibilità di professionisti qualificati. L’articolo 32 della Costituzione tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, mentre l’articolo 24 garantisce il diritto di difesa come inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

Tuttavia, la garanzia formale di questi diritti perde significato se non è accompagnata da politiche che assicurino la disponibilità effettiva di professionisti in grado di renderli concreti. Un diritto alla salute che non può essere esercitato per mancanza di medici disponibili è un diritto vuoto. Allo stesso modo, un diritto di difesa che può essere esercitato solo accettando prestazioni professionali svilite dalla competizione al ribasso è un diritto compromesso.

Le priorità della collettività

La collettività italiana ha bisogno prioritariamente di un sistema sanitario funzionante, con medici disponibili in numero adeguato e distribuiti equamente sul territorio. La carenza di professionisti sanitari compromette il diritto costituzionale alla salute e genera disuguaglianze territoriali nell’accesso alle cure.

Parallelamente, la collettività ha bisogno di un sistema giustizia efficiente, con professionisti forensi che possano esercitare la loro funzione in condizioni di dignità economica e professionale, senza essere costretti a competizioni al ribasso che sviliscono il valore della prestazione intellettuale.

Verso una riforma necessaria

Ripensare l’accesso alle professioni

La situazione attuale richiede un ripensamento profondo delle politiche di accesso alle professioni intellettuali. Una riforma equilibrata dovrebbe considerare l’introduzione di meccanismi di programmazione che garantiscano una corrispondenza più equilibrata tra il numero di professionisti formati e le effettive opportunità di esercizio della professione in condizioni economicamente sostenibili.

Per la professione medica, questo significa rivedere i numeri chiusi aumentando significativamente i posti disponibili nelle facoltà di medicina, in linea con le effettive esigenze del sistema sanitario nazionale. Per la professione forense, potrebbe significare introdurre forme di programmazione dell’accesso che, pur rispettando il diritto costituzionale di accesso alle professioni, evitino la proliferazione incontrollata che produce saturazione del mercato e svilimento della professione; quest’ultimo aspetto, tuttavia, mal si concilia con la necessità di avere giovani professionisti che paghino le pensioni di chi ha abbandonato la professione per raggiunti limiti d’età.

Il ruolo della formazione

Un elemento cruciale riguarda la qualità della formazione professionale. L’articolo 11 della legge professionale forense stabilisce che “l’avvocato ha l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali”.

Tuttavia, l’obbligo di formazione continua perde significato se il professionista è costretto a lavorare per compensi inadeguati che non gli consentono di investire nella propria crescita professionale. Una riforma equilibrata dovrebbe garantire che i professionisti possano esercitare in condizioni economiche dignitose, tali da consentire l’investimento continuo nella formazione e nell’aggiornamento.

Conclusioni: correggere gli errori del passato

Il paradosso delle professioni intellettuali in Italia – medici introvabili e avvocati in eccesso – rappresenta il risultato di scelte legislative scellerate che hanno privilegiato la proliferazione di professionisti del diritto rispetto alla garanzia di un numero adeguato di professionisti sanitari.

Vale la pena studiare tanto da avvocati per poi lavorare per compensi irrisori? Oppure è meglio tentare la strada di medicina, dove una volta superato il test d’ingresso la strada è in discesa? Queste domande, che molti giovani si pongono oggi, rivelano il fallimento di un sistema che non ha saputo bilanciare adeguatamente le esigenze della collettività con le opportunità professionali offerte ai giovani.

I film di Alberto Sordi che raccontavano medici disposti a ogni compromesso per acquisire pazienti appaiono oggi mere barzellette, testimonianze di un’epoca completamente ribaltata. La politica ha sbagliato: meno medici significa meno cure per i cittadini, più avvocati significa più cause ma anche più professionisti costretti a lavorare in condizioni economiche inadeguate.

Gli italiani vorrebbero probabilmente un sistema più equilibrato, dove il diritto alla salute sia garantito dalla disponibilità di medici in numero adeguato e dove il diritto di difesa sia assicurato da professionisti forensi che possano esercitare in condizioni di dignità economica e professionale. Correggere gli errori del passato richiede scelte coraggiose che sappiano riequilibrare il sistema delle professioni intellettuali, garantendo alla collettività sia l’accesso alle cure mediche che l’accesso alla giustizia, senza sacrificare la dignità e la sostenibilità economica di chi esercita queste professioni fondamentali per il tessuto sociale.