Giochi di luci e di ombre, di giorni e di notti, di commedia e di tragedia.
Giochi di andate e di ritorni, di partenze e di addii, di incontri e di gente.
Giochi di vita e giochi di morte.
Storie di donne dalla luce intermittente come il ventre di lucciole accese, che brillano se c’è oscurità, donne che scelgono l’ombra altre su cui cala la notte.
Erano i primi anni Cinquanta quando Nellina lasciò la Sicilia riparandosi dal sole con un fazzoletto che raccoglieva i suoi capelli neri e ondulati, stringendo tra le morbide mani una borsa dalla fibbia allentata. Era un giorno di luce quando il fischio del treno, di una spoglia stazione di terra sicana, segnò l’inizio di un viaggio ed una assenza durata dieci anni.
Una scelta stare nell’ombra, come quella proiettata dalla mano per riparare gli occhi, la stessa da porgere ad altra mano di bimba, di circa otto anni e dai tratti comuni ed anonimi, che si era sempre ostinata a rendere bella, cucendo per lei vestitini di tinta pastello con finiture in pizzo sangallo.
Era un libero atto di volontà seguire il marito, una promessa a Dio e suggellata dal prete il giorno del suo matrimonio in una buia sacrestia, che sarebbe durata per sempre. Madre devota e moglie fedele, si apprestava a cambiare vita, oltrepassando lo stretto che aveva visto solo in cartina, per raggiungere una borgata, al centro del Continente, dove il consorte avrebbe ottenuto quel tanto aspirato e agognato posto fisso e sicuro.
Era un giorno di un fresco settembre, quando una famiglia dell’entroterra di Sicilia si trasferì in Ciociaria, in un posto dimenticato da Dio e ricordato appena dagli uomini, ma dove Nellina, in una piccola casa di appena due stanze, dalle pareti color lapislazzulo e dal mobilio essenziale, fu incoronata regina dalle donne natie. A lei, che sapeva leggere e scrivere, con i suoi cinque anni di scuola, venne affidato un asilo per i figli di madri bruciate dal sole e dalle mani callose, che avrebbero potuto ricevere solo scabre carezze, seppure amorevoli, e suggestioni di antiche credenze.
Nellina divenne in tal modo maestra di bimbi, tra le oche e il pollaio, tra canti leggeri e filastrocche in rima baciata in quella lingua italiana che risuonava tra quelle montagne ciociare, come ritmo nuovo e festoso.
Una vita serena, in un luogo dove il tempo si era fermato, che di giorno veniva toccato dai raggi di sole penetranti tra le fronde degli alberi verdi e che di notte si accendeva di lucciole e incanto di bimbi, le cui voci, tra lo scroscio del torrente, fregiato da guizzi di trote, e una luce riflessa di luna sfacciata, animavano le sere d’estate.
Era Antica, con poco meno di cento povere anime e i suoi duecento animali da allevamento, poggiata su una collina, che declinava a passo lento verso la pianura, con le sue misere case di pastori che sbucavano, appena accennate, tra le rocce appuntite, come in un bozzetto a firma d’autore.
Tra i dossi del frosinate Nellina imparò dalle donne ciociare il valore del bene comune, a condividere il lievito madre per far crescere il pane che, dalle donne a turno infornato e dispensato all’intera borgata, manteneva ogni giorno la fresca fragranza. Apprese dai ruvidi volti, memori di antiche bellezze, nuove ricette di sagne e fagioli per cucinare sul fuoco vivo, come usanza locale.
Tra taglio e cucito per un corredino, dentro la casa di lapislazzuli sotto quel grande quadro di San Bernardo, in un giorno di pioggia e di freddo partorì nel dolore due gemelli che, per polmonite, seppellì dopo pochi giorni di luce, ricordando per sempre quel cassetto di noce imbottito di ovatta, che fece da incubatrice ai due piccoli angeli passati da Antica.
Di luci e di ombre, di giorni di notti di una borgata qualunque abitata povera gente.
Di sole e di luna, di donne e dei loro mariti.
Di donne che vissero insieme in quella collina tra chiacchiere e figli attaccati ai loro seni cadenti e i piedini poggiati sul ventre materno.
Di scarpe perse al torrente tra schizzi d’acqua, capriole e risate di umana commedia e storie tremende e violente che sempre ed ovunque hanno macchiato l’umana genia.
Fu un colpo d’ascia al chiaro di luna che uccise Annetta mentre dormiva tra i suoi due bambini dai teneri volti sereni che si colorarono del rosso della tragedia. Colpevole la sua insolita voglia di lavorare ed evolversi, di uscire dal buio, di andare a servizio nella ricca casa del paese vicino, da quello scapolo, trentenne e balordo, che insidiava le donne nella sua proprietà.
Fu femminicidio ad Antica, gesto del povero e folle “Asenina”, che con l’arma nel pugno grondante di sangue e respiro, si condusse, nel buio della notte, fino alla casa del giusto maestro che, senza svegliare Nellina, guidò il reo confesso alla caserma dai carabinieri.
Fu l’ultima luna di Annetta, prima del buio infinito.
Fu una tragedia per il borgo di Antica che seppelliva una madre.
Fu notte di donne, che insieme pregarono i santi del cielo per la gelosia che toglie la vista e che spense la vita di Annetta.
Furono ancora altri giorni di luce ed altri di buio prima della partenza e il ritorno in Sicilia della bruna Nellina e di una famiglia che intanto cresceva di numero e affetto.
Furono storie, fatti e misfatti, di un posto qualunque, di vita serene, ed altre infelici.
Di donne che vissero all’ombra di querce o sotto il sole cocente a lavare al torrente bianche lenzuola.
Lucciole vivide ed altre fioche che lente si spensero tra un bicchiere e una mano in un gioco di bimbo.
Puntini su un prato in una notte d’estate di luna piena riflessa sull’acqua in quel borgo lontano di Ciociaria rimasto tutt’oggi l’Antica di allora.
Irene Varveri Nicoletti