Sono un equilibrista.
Artista funambolica che, sognando di volare, sul filo sottile delle illusioni sospeso tra un prima e un dopo, cammina a dieci metri da terra su una corda ondeggiante al procedere lento di passi di piedi addestrati.
La mia vita è del circo e nel circo, universo leggero ed anarchico, dove il caos è magia e dove la precisione cede il passo all’improvvisazione.
Enorme tendone rigato di rosso e di giallo, dall’odore greve di fieri felini tigrati, baraccone precario e cencioso ma che ostenta bandiere festanti, che puntano il cielo, issate sulle aste, per tutte le volte che portiamo la festa nei borghi e nelle vallate.
Tersicorei, trapezisti e domatori, famiglia di artisti la mia.
Antichi ed eterni, nomadi e zingari, maestri dell’arte di strada dei saltimbanchi. Profili opachi e affascinanti, deformati dalla vita o dalla sorte e forme morbide e opulente per l’adipe accumulato negli anni. Mi muovo tra guizzanti anziani Bagonghi e misteriose donne Cannone che sfidano il cuore e la gravità, senza dire parole, alle note di cantautori dai canti simbolici, non hanno paura di non essere belle.
Ho visto il mondo passare da qui, non oggi ma ieri.
Nasi curiosi all’insù, protèsi al cielo, puntini di pennarelli rosa su pagine intonse, cuori battenti sincronizzati al mio battito, ad ogni mio passo qui sulla fune.
Gente plaudente seduta su gradinate metalliche impolverate da sabbia, già sollevata da enormi zampe di pachiderma, che dall’alto mi pare polvere e luce di stelle che poi dipinge, coi granelli sottili, le bianche camicie che sbucano fuori da rosse livree con bottoni dorati.
Ho udito allegre risate, stupore di bimbo, vocii sbalorditi di grandi e piccini che credono ancora nell’ arte del circo.
Ed oggi da sola, sono qui sulla fune, qui in alto a pensare e guardare lontano.
Il mondo dall’alto ha un altro colore, il mondo a distanza è tanto più bello.
Mi pare più bello anche il clown spettinato, con il cerone spalmato sul viso e il sorriso stampato, che se fossimo stati in tempi migliori, avrebbe animato un film di Fellini. E se, per sfortuna o talento mancato, non bucherà mai lo schermo del grande telone, con il piglio e la verve di un attore affermato, condita da sguardo piacione, mi ha detto che vuole portarmi all’altare.
Proposta da valutare, ma senza quel trucco che conserva sul viso.
Ed anche se indossa il costume di scena, camicia con quadri scozzesi tagliati dalla tracolla di una chitarra da gioco, lo inviterò sulla fune con me, per poterne parlare più tardi, che un matrimonio, in tempi di virus, è roba su cui non scherzare.
La cosa ha bisogno di altri punti di vista, di nuovi discorsi, congetture e opinioni.
E insieme potremmo guardare lontano, che il mondo da qui si veste di nuovo. È come salire su un banco in New England, con un grande John Keating che impartisce lezioni sui sommi poeti che sanno di attimi e di Carpe Diem.
Rendete meravigliosa la vostra vita, lo dice il maestro e a questo aneliamo.
Come in quel film degli anni Novanta che tratta di scuola, studenti e di Puck in un sogno d’ estate di mezzo, che nella vita voleva fare l’attore.
E domani noi qui, sulla corda, strapperemo pagine e libri, oggi compagni fedeli di quarantena, per contagiare la folla di amore e poesia, con fogli plananti verso mani voraci che li vorranno afferrare e rubare.
Intanto nell’oggi viviamo di quiete e di disperazione e, se l’attimo fugge, cogliamo la rosa io e il clown sulla fune.
Il momento sospeso di due saltimbanchi.
Per gli altri momenti fuggenti e perduti aspetteremo il domani, che torni la folla festante e che il baraccone riapra.
E che il circo riviva in un battito solo.

Irene Varveri Nicoletti