Tre sono le cose che non si dimenticano: la povertà, le botte e la guerra.
Ricordi che affiorano in superficie come l’olio in un piatto di minestra calda e come l’olio verde ne correggono o alterano il sapore.
Succede a Gesualdo, che di frantoi se ne intende e l’olio buono lo riconosce dall’odore e dalla trasparenza, ritrovando tra la memoria la reminiscenza di fatti che hanno condito la sua vita, anche se hanno pizzicato in gola, ma pronte a risvegliarsi e tornare a galla, fortificate dal passare del tempo, scivolando tra i meandri della mente.
Aveva solo otto anni quando lasciò la scuola elementare per trasferirsi insieme ai fratelli più piccoli e per decisione del padre nella campagna di contrada Scavo per lavorare la terra ed occuparsi del bestiame. Un’età che nel 1938 appariva giusta per proteggere e dare dritte ai fratellini che a scuola non andarono nemmeno; per dormire dal lato della porta d’ingresso, che i più piccoli avevano paura, o per poter sfoderare quella buona dose di coraggio mista ad affetto utile ad allargare le braccia a quei marmocchi che cercavano rifugio nelle notti insonni di temporale.
Gesualdo non ha mai dimenticato quel giaciglio di fogliame ricoperto da un sacco di iuta, poggiato su un umido pavimento di balate, che rimetteva a posto ogni sera prima di dormire non perché vi trovava ristoro o per sollecitudine verso i piccoli ma per placare l’inconfessata paura di ritrovarsi nel letto in compagnia di qualche piccolo e paffuto roditore.
La povertà non è vergona “ma mancu un priu”, eppure il signor Russo lo dice con il sorriso, lasciando intendere che nel ricordo anche l’indigenza può diventare gioia.
Gioie non furono certo le botte che il piccolo Gesualdo prese per tre volte per mano di suo padre, di cui ricorda la sequenza esatta e che probabilmente devono ancora fargli male.
Le prime le buscò quando portò i fratelli a lavarsi al torrente e a fare il bagno nell’acqua gelata, col rischio di un malanno, mentre le seconde quando tornò a casa scalzo dopo un temporale e con le scarpe in spalla. Furono invece cinghiate di santa ragione quando frequentò, seppure per breve tempo, dei ragazzacci che si aggiravano per le campagne ad adocchiare le toppe delle porte e contare i chiavistelli. Filosofia spiccia, senza telefono azzurro e senza traumi psicologici, che servì al giovinetto ad imparare che “quando c’è salute c’è tutto” specie il pane a tavola e che l’onestà è la prima virtù. Che “se uno è onesto è pure nobile” e non servono stemmi di aquile reali o di grossi felini quando basta la zappa e il sudore della fronte.
Sudavano quei poveri “viddani” quando sbarcarono gli americani in Sicilia in quel Quarantatré caldo ed afoso e mentre al paese affiggevano i manifesti per sfollare, Gesualdo e i suoi si trovavano in contrada Scavo dove arrivarono trecento famiglie per scampare il pericolo e trovare ricovero in una galleria che sbucava a Nicosia. Intanto al paese era la guerra ed i tedeschi dalla “Pirrera” al “Cernigliere” uccisero mille e cinquecento americani che avanzavano dalla parte di “Rocca di Mietre” ma che presero il paese con i cannoni arrivando fino al “Chiano Scola” per affrontare i nemici con le pistole. Un cecchino tedesco, con un braccio solo, piazzato dalle parti della casa del barone “Citrolo”, uccise centinaia di americani per perdere la vita per mano di un maggiore alleato che lo sgozzò con un pugnale. In mezzo a quell’inferno e per mano del cecchino perse la vita pure un salinaro cercando di sottrarre gli stivali ad un morto.
La notizia arrivò pure allo Scavo, che lì se gli sfollati non capivano il significato di un’inutile guerra che come ogni guerra senso non aveva, capivano quello delle scarpe.
Gesualdo, all’epoca di poco più di dodici anni, tedeschi, in prossimità della galleria, ne vide passare una volta solo un due, sporchi, emaciati ed intenti a scambiare tra di loro qualche parola, riuscendo a distinguere tra quei suoni duri e gutturali la parola “brot”.
Sveglio come pochi, nobile senza stemma e con il senso dell’ospitalità sicula nel sangue, disse allo zio, alla vista dei soldati che intanto si erano avvicinati, di prendere una pagnotta di pane e di tagliarne un pezzo da assaggiare prima, a dimostrazione dell’innocuità, per darlo ai due che ringraziarono, perché il nemico vero era la fame ed anche quei “mischini tedeschi” avevano bocca e stomaco vuoto.
Allo Scavo non ci furono combattimenti, seppure qualche uomo in uniforme si vedeva passare, come quando arrivò un italiano del continente ferito alla gamba arrivato a piedi da Enna e che, quando un aereo militare perse il carico ed un fusto arrivò dal cielo, trovò il modo di farne un attrezzo per la “calia” da mangiare insieme agli altri nella galleria.
Si videro pure gli artificieri, per disinnescare gli ordigni inesplosi, che a casa dei Russo dimenticarono una cassetta che divenne la sedia di Gesualdo che a ricordarlo ci sorride su.
Perché se c’è una cosa certa è che la guerra non si dimentica come la povertà o come le botte ma quello che lascia è il suo significato, cioè che non ha più valore di ceci “caliati” e di una cassetta buona solo per diventare “seggia”.

Irene Varveri Nicoletti

NB: Si è scelto di non verificare l’attendibilità dei fatti storici trattandosi di mera narrazione