di Francesca Di Fiore

da Playa del Carmen (Messico)

Big Floyd, il grande Floyd, come lo chiamavano i suoi amici, era un omone afroamericano di quasi 2 metri, nato nello stato della Carolina del nord, ma cresciuto in Texas, senza padre, in un ghetto nero.
Da ragazzo, aveva persino dedicato un rap al suo quartiere: Io non voglio crescere, voglio continuare a giocare con topi e scarafaggi, qui nelle case popolari.
Promettente stella del basket, vince una borsa di studio per l’Università della Florida, dove comincia la sua vita adulta tra piccoli lavoretti e precedenti penali.
Nel 2014, aiutato da alcuni amici, trova lavoro a Minneapolis, per poter mantenere i suoi 5 figli avuti da diverse relazioni. Lavora come addetto alla sicurezza e cerca di rifarsi una vita in modo onesto. Poche settimane prima della sua morte, viene licenziato a causa del Covid-19.
Il resto della storia, lo conosciamo tutti: i suoi 8 minuti e 46 secondi di agonia, hanno dato vita al movimento I can’t breathe, che unendosi al precedente movimento Black Lives Matter, dalla città di Minneapolis si è esteso a macchia d’olio, in ogni angolo del pianeta, in più di 60 paesi, nonostante la pandemia, radunando in strada centinaia di migliaia di persone e spaccando l’opinione pubblica tra i sostenitori del movimento e i conservatori, con in testa il presidente degli USA, Donald Trump, che considerano le proteste eccessive e le attribuiscono a isolati gruppi ‘antifa’ (antifascisti).
Il vero punto di svolta, nella storia delle proteste razziali è stato per la prima volta, l’appoggio massivo, imponente, solido della comunità bianca decisa a mettere fine a qualunque tipo di discriminazione e alle macabre statistiche che vedono i cittadini afroamericani, vittime di violenza da parte della polizia, con un tasso sette volte maggiore.
La conseguenza più evidente della pressione della protesta è stata la rimozione graduale di statue, simbolo della schiavitù, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, oltre a una proposta di legge del partito democratico statunitense, su un cambio strutturale delle funzioni del corpo di polizia.
Attualmente, l’assassino di George Floyd, l’agente di polizia Dereck Chauvin si trova nel carcere di massima sicurezza Ramsey County in Minnesota, con una telecamera di sorveglianza puntata addosso 24 ore su 24 e sottoposto ogni 15 minuti,  ai controlli degli agenti penintenziari, per evitare che possa compiere atti autolesionistici. Uno degli altri tre poliziotti complici, invece, ha già lasciato l’istituto penitenziario, pagando una cauzione di 750 mila dollari.
Il mondo intero è con il fiato sospeso in attesa della sentenza.