“U travagghiu è un onore, chi non travagghia non cunta nenti e nenti avi di cuntare”
Non solo a Leonforte ma anche a Raddusa, a Zafferana e a Trecastagni, il signor Russo lavorava sempre.
“Travagghia” da una vita, da quando era “picciriddo”, sotto l’occhio cocente del sole o sotto la pioggerellina ad “azzuppa viddano” ché se la terra chiamava bisognava partire con la zappa in mano e il mulo a fianco.
Il fatto è che certe volte la terra non è madre amorevole ma è matrigna ed i figli suoi li divora e li riporta nel suo ventre per trattenerli in eterno, come chiamò a sé il fratello di Gesualdo che aveva ancora una vita da vivere ed una famiglia da mantenere. Ma è la vita e si sa che di lavoro si vive e di lavoro si muore, specie coi “mezzi” che sono una grazia del cielo fino a quando non arriva la disgrazia.
Sempre questione di terra.
Il “viddano” la terra ce l’ha nelle scarpe e nella testa e solo chi non ha testa non lavora. Russo Cataldo invece già a quindici anni intrecciava “cufini e panari” rubando con gli occhi l’arte che il padre e lo zio avevano nelle mani e rubando pure le bacchette quando il campiere si addormentava.
Quelle mani callose conoscevano la fatica che passava quando le spighe davano il grano e le viti l’uva e quando, con la grazia del Signore, si portavano a tavola pane e vino.
Per essere signori basta questo e se c’è pure un tetto di stelle, un venticello d’estate e un prato d’erba su cui riposare pare di essere un re.
Però il sacrificio, quello non manca mai e non mancava a Gesualdo che per dodici “invirnati” mangiò cosciavecchia bollita con la pasta e bevve acqua di cielo e, senza mai indossare un pigiama, dormì su un letto di “pampini” di castagne sotto una tettoia a riparo dall’umidità.
Per lo meno fino a quando non riparò il pavimento di un garage insieme al massaro ed allora ebbe anche le lenzuola ed un lumicino per leggere un libro e scoprire che i primi alberi nacquero nell’acqua.
Per leggere ci vuole testa, come per tante altre cose, come ci vuole per zappare e pure per non fare domande, ché si può avere a che fare coi delinquenti e restare onesti.
Capitò infatti che Gesualdo fu interrogato nella caserma dei carabinieri perché era stato assunto da un tizio che non era proprio uno stinco di santo.
“Marescià, io facevo il mio travagghiu e mi pagava, se rubava non lo cuntava a mia” disse quella volta senza scomporsi e fu messo a verbale o meglio, corresse Gesualdo, “Non quello che ho detto, ma quello che avete scritto, ché io niente ho detto”.
Non fu l’unica volta che ebbe a che fare con la giustizia, fu perfino convocato in tribunale ma Gesualdo aveva testa, travagghiu e onestà e non fu un problema nemmeno quell’altra.
Era il 1969 e mentre trasportava un carico con un furgone insieme ad un compagno, venne tamponato nei pressi di Paternò da un tipo che pur essendo senza cicatrici al volto poteva tranquillamente essere definito “faccia tagghiata”.
Per trattare dell’assicurazione si diedero appuntamento nella nota piazza san Cristoforo della cittadina paternese ma che il datore di lavoro fraintese per la piazza omonima di Catania che, in quegli anni, non era certo un salotto urbano.
Fortemente preoccupato, il padrone partì per raggiungere Gesualdo e il compagno a Catania ma non trovandoli pensò bene di recarsi in caserma e denunciarne il rapimento.
I due invece, pagando la benzina e dopo aver consumato un caffè a casa di “faccia tagghiata”, si fecero riaccompagnare al paese in lambretta, annunciando il ritardo con una telefonata al bar Italia dove almeno c’era un telefono per usi vari ed eventuali e dove di solito bivaccava il datore di lavoro che quella volta, contrariamente, si trovava in caserma a tamponare il sudore della fronte con un fazzoletto e a tenere a bada la tachicardia.
La denuncia fece comunque il suo corso e Gesualdo fu interrogato da un pubblico ministero:
“Signor Giudice, se ha lavoro da offrirmi mi chiami, io capisco solo di lavoro, ma capisco pure che se l’imputato mi avesse rapito non mi avrebbe offerto il caffè e nemmeno riaccompagnato. Certo ho pagato la benzina e pure cara, ma d’altra parte qualcosa per il disturbo doveva pur prenderla, pure quello è travagghiu”.
Che poi, parafrasando Gesualdo, non è tanto capire di lavoro ma amare il lavoro ed averne piene le mani, per dare uno scopo alla mente ed una speranza al futuro.
Ché forse la verità va cercata proprio nelle mani di un “viddano”.

Irene Varveri Nicoletti